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Attualità

OLTRE

FABIO GANDINI - 04/10/2024

guenzaniPrima ci sono ore di cammino, con la testa girata all’insù, in cerca di un punto favorevole da cui saltare.

Poi – arrivati in cima – si cambia il senso. Di tutto, non solo quello direzionale: lo sguardo si tuffa verso il basso e non vede altro che un precipizio davanti a sé, la lentezza si trasforma in velocità, il cammino diventa volo. Un piccolo passo e cadi nel vuoto, aprendo delle ali fatte di nylon che assecondano la tua planata: sfiori rocce, alberi, nevai, spuntoni, e lo fai a un chilometraggio folle, da rapace in picchiata. La caduta è studiata per sfruttare la morfologia del terreno – in verticale quello, in verticale tu – ma non si può sbagliare nulla: il paracadute si apre solo alla fine, in un momento pre-stabilito. Farlo prima o farlo dopo rispetto ai piani equivale solo a un’evenienza: la morte.

Sono le crude norme del base jumping, del volo con la tuta alare, il principe degli sport estremi di quest’epoca, una delle attività più a rischio di infortuni gravissimi e di decesso che siano mai state concepite.

Anche la provincia di Varese ha pagato il suo contributo all’ineliminabile pericolosità della questione. È di pochi giorni fa la notizia della morte di Filippo Guenzani, ingegnere 38 enne di Casorate Sempione. Si trovava in Alta Savoia, a Crève-Cœur a Sallanches, ai piedi della catena montuosa dei Fiz, per lanciarsi con la sua tuta ben aperta, una routine documentata tante volte anche su vari canali YouTube dedicati al genere. Nel suo ultimo giro di giostra, però, qualcosa è andato storto e sarà un’inchiesta della magistratura francese a stabilire cosa, se ci riuscirà: fatto è che al momento dello sgancio del paracadute e della dolce planata su un terreno finalmente piatto Filippo non ci è mai arrivato, perché si è schiantato al suolo molto prima, probabilmente contro delle rocce, perendo sul colpo.

Il volo era la sua “casa”, la sua fama, il suo amore, pure da condividere con l’altra metà della mela: nel luglio 2023 si era sposato proprio fluttuando nell’aria dopo un tuffo dal monte Brento, in Trentino.

Chissà cosa aveva pensato Guenzani quando otto mesi fa la tranquilla quiete di una domenica di febbraio venne spezzata dalla notizia della morte di Alessandro Fiorito, un altro abitante di queste terre (era di Gallarate), 62 anni, lanciatosi dalla parete del Forcellino, tra Abbadia Lariana e Lecco. Le cronache del giorno riportano questa dinamica: “La vittima è stata vista precipitare in avvitamento senza che fosse riuscita ad aprire la vela, da un’altitudine stimata tra i 200 e i 300 metri”.

Per la mente della maggioranza di noi esseri “normali” c’è qualcosa di inconcepibile nello sfidare la sorte e la morte in questo modo. Viviamo un’esistenza in cui un solo attimo può significare la fine di tutto, anche nello scorrere delle consuetudini più tranquille e assodate (un incidente mortale occorso in auto nel tragitto casa-lavoro, un boccone che ti va di traverso e ti ostruisce la trachea, un infarto fulminante mentre si è semplicemente seduti sul divano): sappiamo bene di non essere noi a dettare le regole…

Ma non riusciamo a concepire – nella nostra normalità – che tali regole vengano addirittura “sbeffeggiate”, che il senso della vita, la vita stessa e il suo valore vengano appesi a un filo sottilissimo che non ammette errori e che spesso fa pagare il conto pieno anche senza colpe.

Non c’è solo il base jumping: pensiamo a chi affronta a mani nude e senza corde che lo assicurino al terreno o lo leghino a compagni le pareti verticali delle montagne. O a chi, sempre in montagna, ambisce a scalare i picchi di 8000 e più metri senza ossigeno, facendo a poco a poco morire il proprio corpo in una sfida contro il tempo (sopra una certa quota non si può sopravvivere se non per qualche ora). E si potrebbe andare avanti con altri esempi…

Il punto è questo: noi normali abbiamo tutto il diritto di non mettere mai la nostra vita in certe situazioni, ma non possiamo far finta – dal pulpito che ci auto-costruiamo sopra le disgrazie altrui – di dimenticarci che esistono i sogni.

Il sogno di sfidare una parete ad armi pari, tu e “lei”, senza acquisire vantaggi. Il sogno di arrivare ad altezze che in pochi sanno toccare senza l’aiuto dell’ossigeno.

O il sogno – atavico nell’uomo – di volare, la “malattia” di Filippo e Alessandro.

Sono questi sogni, che guardano oltre l’orizzonte precostituito, il motore che ha sempre mosso il mondo. E come tali vanno rispettati, anche fino alle estreme conseguenze.

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