Come si fa a vivere quando non si vede più il futuro? Quando crollano le speranze che ci eravamo costruiti? Quando la vita che era piena di promesse sembra improvvisamente andare verso un orizzonte di fallimento e sconfitta?
Alessandro Forlani, giornalista, classe 1967, piacentino, ha scritto un bel romanzo tenero e scomodo, drammatico e ironico dal titolo “Il buio ed altri colori” (edizioni Manni) in cui racconta, grazie alla voce di un alter ego Michele, la sua storia: a 46 anni, nel giro di pochi mesi, ha perso quasi totalmente la vista. Ha dovuto reimparare a vivere, lavorare, fare la spesa, spostarsi per la città, trovarsi con gli amici.
Non potendo più contare sugli occhi (da cui dipendono l’80 per cento degli impulsi cognitivi che arrivano al nostro cervello) ha affinato altri sensi: udito e odore. Quest’ultimo in particolare è diventato la colonna sonora della sua giornata.
Diciamo subito che il protagonista del libro pur condividendo con Forlani il lavoro al GiornaleRadioRai, si discosta leggermente dall’autore che nella realtà è felicemente sposato con Antonella. Padre di una splendida figlia, opinionista a “Radio Anch’io”, incide podcast, scrive saggi storici ed ama indagare sui misteri italiani come il caso Moro.
Michele invece è single. Arrabbiato con la vita dopo la malattia si chiude in casa per un lungo periodo. Diviso tra l’essere in debito con chi lo tratta con gentilezza e arrabbiato con chi lo ignora, vive la disabilità come una prigione. Nel romanzo cerca di dare identità a tre misteriose persone incontrate e percepite per un odore di sigaro, un profumo di ciclamino, un aroma di gel.
Comunque sia il Forlani/Michele non fa sconti sulla condizione di non vedente. Il libro è un manuale di sopravvivenza in una giungla quotidiana fatta di marciapiedi con le buche e di stazioni della metro non attrezzate, di supermercati dove ci si orienta “a memoria” e di venditori ambulanti che cercano di truffarti, di palazzi del potere dove i disabili non riescono a lavorare e di presidenti di seggio che mettono in dubbio il tuo diritto di voto, di rifiuti abbandonati per strada e cinici automobilisti.
Sopravvivenza garantita da alcune regole auree che Michele descrive così: “Dar retta al cane guida e non telefonare quando si cammina, mai correre, portare sempre il cappello con la visiera (che se incontri un palo l’impatto è attutito), mettere il bastone in verticale quando passano le comitive, entrare nei locali senza buttare il peso in avanti (c’è’ sempre un gradino in salita o in discesa), fermarsi prima di girare l’angolo (perché ci può’ essere sempre una bici o una moto o un turista che corrono sul marciapiede).”
E qui entra il terzo personaggio del romanzo: Roma. La capitale de “Il buio ed altri colori” non è quella di “Vacanze romane” né tanto meno quella del primo Carlo Verdone. È una città diventata in gran parte caotica e approssimativa, violenta e distratta. Basterebbero le pagine che l’autore dedica a descrivere i taxisti per darne ragione: solo qualche settimana fa all’aeroporto di Fiumicino d’altro canto uno di loro non ha rifiutato la corsa ad una coppia di non vedenti per via del cane? “C’ho a macchina nuova ..” è stata la giustificazione.
“Il buio ed altri colori” è un libro pieno di rabbia ma anche di speranza. È un percorso di formazione attraverso cui l’autore passa dal chiedersi il “perché’” della malattia capitatagli al “per dove” la sua vita è chiamata ad andare, dall’incolpare la malasorte della sua situazione al fare pace con se stesso e il mondo.
Fuori dal pietismo di certi sguardi o dall’occasionale buona azione per lavarsi dai sensi di colpa, Forlani ricorda a tutti noi che il rapporto con un diversamente abile è prima di tutto rapporto tra persone. Portatori di un valore infinito come dovrebbe essere tra ogni figlio di Dio. Certo non è una posizione a cui si possa arrivare da solo. Ci vuole (o vorrebbe) una comunità. Ed in questo la Chiesa dovrebbe essere maestra. Dovrebbe, perché senza spoilerare nulla, anche la parte “santa” di Roma in questo libro non ne esce gran che bene…
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