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Storia

ILLUMINATI

PIETRO CARLETTI - 13/09/2024

dioluceI riferimenti alla luce emanata dalla parola di Dio e dal suo volto sono talmente fitti nelle Scritture, già solo nei Salmi, che sarebbe impossibile menzionarli uno per uno.

Tuttavia, giova ricordare almeno due casi emblematici in relazione agli esempi sopracitati: «lampada per i miei passi è la tua parola e luce per il mio cammino» (Salmo 119); «in te è la fonte della vita, nella tua luce noi vediamo la luce» (Salmo 36).

Il binomio Dio-luce non illumina soltanto le pagine dell’Antico Testamento e del Nuovo – pensiamo all’episodio della folgorazione di Paolo sulla via di Damasco negli Atti degli Apostoli – ma anche le righe delle opere letterarie più note.

Un caso memorabile è l’incontro di Dante con Dio nel XXXIII canto del Paradiso, che appare al poeta come un «fulgore» talmente breve e intenso da trafiggergli la vista.

Il ruolo della luce, però, non si esaurisce nella sfera metaforica e spirituale, visto che è un elemento di primaria importanza anche nella tradizione liturgica cristiana fin dal IV-VI secolo.

I Ceri, le candele, le lampade e le vetrate che illuminano le più maestose cattedrali e le più piccole chiese sono un vero e proprio monumento alla luce, segni visibili che i luoghi sacri con la loro luminosità simboleggiano Dio che contrasta le tenebre del demonio.

Le piccole fiamme, antitesi di quelle infernali, hanno il compito di indicare il cammino religioso ai fedeli, di far risplendere l’adorazione di Cristo, della Vergine Maria e dei santi, ma anche di coinvolgere lo spettatore sul piano spirituale ed emotivo, ora come nel passato.

Fin dal Medioevo, come illustra il libro L’età del lume di Beatrice del Bo, l’illuminazione delle chiese e degli spazi sacri era scandita dal tempo liturgico e dal culto dei santi, eccetto la fiammella del Santissimo Sacramento, l’unica a dover rimanere sempre ardente.

A contribuire nel concreto per mantenere vive le fiammelle erano i Comuni e anche le famiglie più abbienti, pronte a concorrere fra loro per procurare ceri e candele utili ad accompagnare le celebrazioni eucaristiche quotidiane.

Spesso si trattava di veri e propri oggetti d’arte, decorati con lo stemma gentilizio dei donatori, fieri di veder scintillare il loro blasone tra le navate delle più belle cattedrali.

La luce, allora come oggi, accompagnava la vita del credente dal battesimo, rito che segnava un vero e proprio passaggio fra due condizioni spirituali antitetiche («un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità» Ef. 5, 8-9), fino alla sepoltura.

Nella liturgia esequiale i ceri alla testa e ai piedi durante la veglia non potevano mancare, così come le candele e i doppieri (candelabri a due braccia) che accompagnavano la processione funebre fino alla chiesa illuminata per l’occasione.

Il numero delle candele dipendeva dal rango del defunto: per la morte di un cardinale occorrevano circa 3 tonnellate di cera; per quella di un alto funzionario pontificio erano sufficienti 80-100 torce.

La gerarchia della luce non riguardava solo la società ecclesiastica, ma anche quella laica: per il funerale di Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano, 4.000 uomini reggevano un doppiere ciascuno, metà all’inizio del corteo, metà alla fine, per un totale di 8.000 candele.

Che sia vero o meno non è dato saperlo visto che le fonti sembrano enfatizzare l’evento; tuttavia è certo che fu una processione spettacolare.

Gli arredi sacri che emanavano luce avevano la funzione di ricordare ai vivi l’esistenza terrena del defunto: la traccia di questa tradizione liturgica, anche se meno solenne, è ancora attuale, benché le processioni siano quasi scomparse.

Il luogo in cui è ancora ben visibile è il cimitero, ora illuminato dalle luci elettriche delle lampade votive. Benché siano un po’ più impersonali rispetto ai ceri in uso nel passato, quelle fiammelle aiutano tuttora i defunti a farsi vedere da Dio, a brillare ai suoi occhi.

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