Erano 313 le persone con più di cent’anni di età che vivevano nella provincia di Varese alla fine dello scorso anno. Ora saranno sicuramente aumentate perché qualcuno ci avrà lasciato, ma erano comunque 2416 le persone tra i 95 e i cent’anni pronte a superare la fatidica soglia del secolo di vita.
Guardando nel loro complesso le statistiche demografiche si può notare che la classe di età (di cinque anni) più numerosa, oltre quota 73 mila, era quella tra i 55 e i 59 anni, persone nate attorno agli anni ’60 in quelli che sono stati definiti baby-boom. Bambini e giovani sono sempre di meno. Tra 0 e 4 anni abbiamo infatti poco più di 30mila persone: e infatti i nati negli ultimi anni sono meno della metà di quelli che nascevano 50 o 60 anni fa. Senza dimenticare che un contributo significativo alle classi di età più giovani è stato dato in questo secolo dall’immigrazione.
È una realtà che accomuna molti paesi europei. I tassi di natalità sono da tempo estremamente bassi, ben inferiori al tasso di rimpiazzo, ovvero ai 2 figli per coppia che consentirebbero di mantenere costante la popolazione.
In provincia di Varese il numero di figli per donna risulta più elevato di quello nazionale (1,35 rispetto a 1,29) anche grazie ad una maggiore disponibilità di posti negli asili nido (26,2% rispetto a 23,2%). Ma si fanno meglio figli anche perché ci si sposa sempre più tardi: l’età media del matrimonio è oltre 34 anni, un dato tuttavia che tiene conto dei secondi matrimoni.
Ma non c’è solo una diminuzione delle nascite, c’è il fatto che a un numero sempre inferiore di giovani si accompagna una quota sempre più importante di anziani. Peraltro lo stesso concetto di “anziano” deve sempre più fare i conti non solo con un aumento della speranza di vita, ma anche con migliori condizioni di salute che spostano in avanti quella che potremmo continuare a chiamare vecchiaia.
È ovviamente utile e necessario che si pongano in atto politiche per migliorare la propensione delle famiglie ad avere figli: sostegni economici, aiuti sociali come gli asili nido, politiche costruttive di conciliazione tra famiglia e lavoro. Anche se non ci può illudere di poter tornare ai tassi di crescita demografica del secolo scorso. Anche perché il numero di donne tra i 20 e i 35 anni, considerate in età “feconda” è anche questo nettamente inferiore rispetto agli anni ’60.
C’è poi un aspetto particolare finora poco considerato. Le riforme delle pensioni attuate negli ultimi anni con un innalzamento dell’età in cui si abbandona il lavoro hanno portato a una riduzione dei potenziali nonni a cui affidare i nipotini in arrivo
Una recente ricerca ha dimostrato che questo effetto è risultato particolarmente rilevante nelle famiglie con forti legami, ad esempio nelle famiglie in cui genitori (ovvero nonni) e figli (potenziali genitori) vivono nella stessa città o comunque a pochi chilometri di distanza.
Si tratta tuttavia di un effetto destinato a ridursi nel tempo perché, proprio grazie all’aumento della speranza di vita, vi sarà a medio termine un numero sempre maggiore di nonni e nonne che potranno impegnarsi, magari non a tempo pieno, nell’assistenza familiare.
Se consideriamo che la popolazione invecchia velocemente, possiamo magari sperare in un mini-boom di nascite, poiché le mamme avranno a disposizione un esercito di nonne e, perché no?, di bisnonne.
Ma questa prospettiva non deve diventare un alibi. Non è un caso che in Francia e nei paesi scandinavi, dove i livelli di fertilità sono più elevati, il supporto alle famiglie nella cura dei figli proviene soprattutto dagli asili nido.
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