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Politica

L’EGEMORÌA

ROBERTO CECCHI - 13/09/2024

bocciaSe c’è una cosa per cui siamo spesso criticati è per la nostra lentezza, per i nostri tempi morti, le incertezze, il continuo rimandare qualsiasi decisione. Il temporeggiare, impersonato da quel Quinto Fabio Massimo cunctator, militare al tempo della seconda guerra Punica, al quale fu attribuito, appunto, l’appellativo di temporeggiatore. Stavolta non si può proprio dire che ci siano stati tentennamenti. La crisi all’interno del governo Meloni è scoppiata improvvisa, dopo le notizie del 26 agosto, riportate su «Dagospia», un sito web che pubblica retroscena politici. Il 6 settembre era già tutto concluso. Sono bastati undici giorni per far traballare paurosamente un ministro (e un governo) della Repubblica e costringerlo a dimettersi. Nello stesso giorno del suo irrevocabile addio, un nuovo ministro, Alessandro Giuli, giornalista e mancata laurea in filosofia, fino ad allora presidente del «Maxxi» di Roma, giura nelle mani del Capo dello Stato. Un miracolato già per quel ruolo inusuale per un soggetto politico (ma preceduto da una collega della controparte, la ex ministra Giovanna Melandri, che aveva fatto da battistrada, occupando impropriamente, a mio avviso, per anni un ruolo tecnico).

La vicenda che ha portato a questo sconquasso, ormai, la conoscono tutti. Nasce dal desiderio di una imprenditrice campana, Maria Rosaria Boccia, di inserirsi nel mondo della cultura, aspirando al ruolo di consigliera per i grandi eventi e corrisposta, in questo suo disegno, dal ministro pro tempore, col condimento di qualche risvolto sentimentale. Per questo, aveva incominciato a impicciarsi di questioni istituzionali ben prima di essere nominata. Senza sapere – pare – che, per entrare nelle funzioni, non basta la firma del ministro (ammesso che ci sia stata). Bisogna ottenere la verifica preventiva (registrazione, si chiama) della Corte dei Conti. Solo dopo questo controllo di legittimità il provvedimento diventa efficace. Dunque, a ben guardare, non aveva alcun titolo di occuparsi di vicende ministeriali. Non poteva disporre di documenti interni e partecipare a riunioni operative. Ma, oggettivamente, bisogna chiedersi, era tenuta a saperlo? E chi sapeva, invece, come stanno effettivamente le cose, come i massimi addetti ai lavori, non ha eccepito? Insomma, par di capire, che siamo di fronte a un mezzo feuilletton estivo, privo di sostanza, ma sapientemente orchestrato.

La compagine di destra aveva investito il nostro Genny (nomignolo affibbiato all’ex ministro dai giornali), non solo di gestire il ministero, ma anche del compito storico di spezzare l’egemonia culturale della sinistra, come ricorda con cognizione di causa Flavia Perina su «La Stampa» (4.9.24). Da lui ci si aspettava “una nuova egemonia del merito, il recupero del brand Italia nel mondo, la rivincita del pensiero italiano «per troppo tempo accantonato in nome di un provincialismo esterofilo», una nuova «élite fuori dai salotti», la definitiva «rottura degli schemi», e ogni altra frase di battaglia ascoltata nei convegni insieme alle citazioni di Soffici, Papini, Finkelkraut, e ovviamente Gramsci”.

In questi due anni di governo, però, è stato fatto poco e nulla. Sangiuliano ha cercato di farsi conoscere facendo un po’ il guascone, strapazzando l’amministrazione che gli era stata appena affidata, svergognandola per la chiusura ferragostana di alcuni musei, senza dire che il disservizio era dovuto alla mancava di personale. Per il resto, è sembrato del tutto inadeguato, non tanto per gli svarioni, come l’aver detto che “Colombo circumnavigava la terra sulla base delle teorie di Galileo”, che fanno più ridere che piangere, quanto perché non ha prodotto risultati apprezzabili. L’incremento degli ingressi nei musei statali, sventolato in qua e il là come un successo, non è merito della politica. Né di questa né di altre. È semplicemente una sorta di rendita di posizione, dovuta al fatto che possediamo un patrimonio culturale ineguagliabile che, inevitabilmente, attrae visitatori da tutto il mondo, la cui fruizione è frutto dello spontaneismo locale.

Secondo Marco Tarchi, professore emerito di scienze politiche dell’università di Firenze, con una lunga militanza di destra, ha sentenziato “L’episodio rivela un misto di ingenuità e improvvisazione che poco si addice al titolare di un ministero”. E conclude osservando che “occorrono veri organizzatori di cultura, capaci di muoversi nei settori più vari avendo in mente un progetto organico e coerente. Non basta avere esperienza giornalistica [sic] e aver scritto libri, né sono sufficienti la buona volontà e la smania di farsi vedere iperattivi […] era evidente che dietro di lui non c’era uno staff in grado di rivoluzionare assetti incrostati da molti anni». (La Stampa 6.9.24). Non c’è bisogno di aggiungere altro neanche per il nuovo arrivato. Avrà il suo daffare. Probabilmente sarà invogliato a seguire la strada indicata dal suo predecessore di varare l’ennesima riforma dell’Amministrazione. Un impegno ciclopico e un’inutile perdita di tempo, buono solo per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi reali, lasciati irrisolti da decenni. Serve serietà.

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