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Cultura

ELIMINARE SOCRATE?

GIOIA GENTILE - 12/07/2024

Raffaello Sanzio, Scuola di Atene, 1509-1511

Raffaello Sanzio, Scuola di Atene, 1509-1511

Ricordate quando, nel 2001, i talebani distrussero le statue di Buddha di Bamiyan? E quando, nel 2015, i miliziani dell’Isis si accanirono contro il sito di Palmira, arrivando persino a decapitare Khaled al-Asaad, il direttore che lo difendeva? In molti pensammo, inorriditi, che si trattava di una barbarie che poteva essere perpetrata solo da primitivi, incapaci di distinguere tra arte, religione e politica. Al fondo del nostro sdegno stava la convinzione che, grazie al cielo, la nostra cultura occidentale sa proteggere la bellezza e la vita di chi la difende. Èvero, pensavamo, che anche la nostra storia è costellata di eventi poco edificanti – abbiamo sfregiato statue e dipinti, bruciato le streghe, decapitato gli infedeli – ma poi ci siamo evoluti.

Ci siamo evoluti? Da un po’ di tempo vedo segnali preoccupanti di involuzione: la cultura della cancellazione – cancel culture, per dirla nella lingua dei Paesi dove si è maggiormente diffusa – sta diventando un’abitudine che forse non è più il caso di considerare ridicola. Prima le statue di Colombo abbattute, poi il divieto di mostrare agli studenti opere di Michelangelo e di Botticelli, quindi la censura di Shakespeare, di Agatha Christie e di altri autori non politicamente corretti; ora si parla di eliminare Socrate, Platone, Aristotele dai programmi scolastici di una prestigiosa università londinese (la University of London). Il motivo: “decolonizzare” la filosofia, sbarazzarsi degli “uomini bianchi morti” e scoprire il pensiero di uomini e – soprattutto – donne dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina. Ma perché le due cose dovrebbero escludersi?

Stiamo diventando talebani anche noi?

Quando studiavo filosofia all’università ero affascinata dai filosofi antichi, dalle domande che si ponevano sul senso dell’universo, dalla loro ricerca del principio unificatore. Al di là delle risposte, che potevano apparire ingenue – come l’”acqua” di Talete – erano proprio le domande – le stesse di ogni tempo – che mi appassionavano. Dietro ogni questione scoprivo la tensione dell’uomo verso la conoscenza, il desiderio di individuare ciò che ha senso di per sé e che non ha bisogno di essere rimandato ad altro che lo giustifichi.

Il fascino di Socrate consisteva, per me, nel suo fare domande, nell’indurre gli altri a riflettere; ammiravo il suo rispetto per le leggi – anche quelle che riteneva ingiuste – e la sua capacità di apprezzare gli aspetti positivi di ogni esperienza anziché soffermarsi su quelli dolorosi. “So di non sapere” sosteneva, e con ciascuno dialogava, insinuando dubbi. Nella nostra epoca di certezze urlate il dubbio è fuori moda, anzi pericoloso: meglio eliminarlo, e con esso Socrate.

Platone mi aveva indotto a chiedermi se fossimo davvero tutti schiavi incatenati in una caverna con il viso rivolto ad una parete, convinti che le ombre che vi compaiono siano la realtà.

Di Aristotele ammiravo l’impegno nell’indagare ogni campo della conoscenza umana per poter dare a tutto una spiegazione razionale; restavo inchiodata per ore allo studio di dispense mal redatte perché volevo capire fino i minimi particolari del suo pensiero.

Probabilmente ho dimenticato la maggior parte di ciò che avevo letto e imparato, ma credo che la sostanza sia rimasta nel mio modo di pensare, di accostarmi ai problemi, di vivere le esperienze quotidiane. Il dubbio, le domande mi guidano in ogni situazione. E mi chiedo perché dovremmo negare agli studenti di oggi le stesse opportunità; solo perché ci vengono offerte da “uomini bianchi morti”?

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