Tra i risultati delle ultime elezioni europee e del voto in alcune importanti città un dato è balzato in primo piano, ma solo per qualche giorno: il dato dell’astensionismo. Nello specifico infatti alle europee ha votato il 48,31% dei cittadini (erano stati il 54,50 nel 2019) mentre nei ballottaggi ha votato il 47,71% degli aventi diritto rispetto al 62,83% del primo turno.
Il commento più tempestivo e nello stesso più improvvido è stato quello del presidente del Senato, Ignazio La Russa: “Abolire i ballottaggi”, una soluzione che assomiglia a quella di chi vorrebbe rompere i termometri per evitare la febbre.
Una soluzione sbagliata due volte: in primo luogo perché la legge elettorale per l’elezione dei sindaci, come dimostra l’esperienza, è sicuramente stata in grado di unire stabilità e rispetto delle scelte popolari e poi perché eventualmente da mettere sotto accusa è la capacità dei partiti di attirare interesse e consensi da parte degli elettori.
Il problema non va sottovalutato. Come ha sottolineato il prof. Stefano Zamagni, uno dei più attenti osservatori della società civile: «L’astensionismo ha raggiunto livelli preoccupanti per la tenuta del sistema democratico. Se per democrazia intendiamo potere al popolo e se il 50% del popolo non va a votare viene meno la nozione stessa di democrazia».
Se si guarda alla dinamica della partecipazione i dati parlano da soli: in Italia si è passati dall’85,65 del primo voto per il Parlamento europeo nel 1979, al 69,76 vent’anni dopo e dopo ancora vent’anni al 54,50 del 2019 per scendere quest’anno sotto quota 50.
Non può consolare il fatto che il problema non sia solo italiano. In Francia si è passati dal 60,71 del 1979 al 51,49 di quest’anno. In Spagna si è votato per la prima volta nel 1987 e partecipò il 68,52% mentre quest’anno si è scesi al 49,21%. Ma in Germania ha votato il 65,73% nel ’79, e dopo un calo nelle votazioni a cavallo del millennio si è tornati quest’anno al 64,78%.
Restando all’Italia tuttavia non si può non registrare un progressivo calo della reputazione dei partiti unito ad una rimarcata progressiva perdita del senso di appartenenza. Avrà pure un significato il fatto che in dieci anni nelle elezioni ha sempre “vinto” un partito diverso. Si è passati dal 40% conquistato dal Pd di Matteo Renzi nel 2014 (ora 24,04), al 32% dei 5Stelle alle politiche del 2018 (9,99 quest’anno), al 34,26 della Lega l’anno dopo (9,37 quest’anno), al 28,80 conquistato da Fratelli d’Italia nelle ultime votazioni (era al 3,76 nel 2014).
Cambiamenti negli equilibri politici così drastici in così poco tempo dimostrano soprattutto l’indebolirsi del rapporto e del riconoscimento dei cittadini con i partiti.
Le soluzioni non sono né facili né popolari. Ci sarebbe bisogno di meno slogan e più concretezza, meno personalismi e più senso del ben comune.
E forse non guasterebbe un po’ di fantasia nel dare sostegno agli strumenti della democrazia. Quest’anno hanno potuto votare gli studenti fuori sede, ma ne hanno approfittato in pochi. Forse nell’era di internet e della crescente mobilità qualche forma di sicuro voto a distanza potrebbe essere introdotta. Ci vorrebbe un’intesa al di sopra degli schieramenti, ma per ora i partiti sembrano più impegnati a guardarsi uno contro l’altro che non a perseguire qualche obiettivo comune. E non sorprende che i cittadini si sentano emarginati.
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