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Cultura

PAROLA A LEOPARDI

RENATA BALLERIO - 28/06/2024

Domenico Morelli, Ritratto di Giacomo Leopardi, 1842

Domenico Morelli, Ritratto di Giacomo Leopardi, 1842

Il futuro è adesso, si dice. E ogni giorno fingiamo di meravigliarci delle conquiste generate dell’intelligenza artificiale: alcune utili, altre inquietanti. Tra queste la possibilità di interrogare persone scomparse che con la loro voce da vivi ci risponderanno. Nuovo modo per esorcizzare la morte? O forse la tecnologia è il vero nuovo oppio per offuscare le nostre coscienze? Domande senza risposta, almeno per ora. Proprio per questo preferiamo far risuonare dentro di noi altre voci, che sanno scuotere le nostre arroganti certezze. O, se preferiamo, ci accompagnano affinché possiamo imparare a non smarrirci nelle nostre incertezze.

Una fra le tante voci, alle quali essere grati, è quella di Giacomo Leopardi. Fu chiamato il poeta di giugno, poiché nacque in giugno, per la precisione il 29, e morì il 14 giugno del 1837.

Naufragare nei suoi pensieri non è sempre dolce, ma è infinitamente arricchente. Il suo pensiero poetante è un continuo invito ad essere come la Ginestra, contenta del deserto. Con un abusatissimo termine potremmo definirla resiliente. Ma quel fiore odoroso testimonia ben altro con il suo essere consapevole che pure lui dovrà arrendersi dentro la vertigine del nulla. Lezione di intensa moralità contro ogni delirio di onnipotenza, come quello di far vivere le voci “fisiche” dei morti.

La vita “strozzata” del poeta di Recanati, come la definì Benedetto Croce, sfociò in questo diamantino messaggio, frutto del suo percorso intellettuale fitto di riflessioni e di svolte, come quella del 1824.

A quell’anno risalgono – tra l’altro – due opere che permettono di cogliere alcune sfaccettature del pensiero filosofico di Leopardi. nostro “contemporaneo” per la capacità di analisi e per lo sguardo penetrante anche sui costumi degli Italiani. Lo fece con inesorabile freddezza e quasi con distacco nel “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani”. Per dovere di cronaca è opportuno ricordare che il breve saggio fu pubblicato per la prima volta soltanto nel 1906.

Certamente quelle pagine devono essere contestualizzate nella temperie culturale dell’epoca, ma il ventiseienne Giacomo seppe analizzare – per contrasto con altre grandi esperienze europee – le fragilità italiane, come la mancanza di élite intellettuale e il diffuso piacere per le feste e gli spettacoli. Nulla cambia, diremmo in un frettoloso giudizio. Più complesso – ma pur sempre attuale – è la considerazione di Leopardi che sostiene che ogni modernizzazione – e lo diceva lui che amava le “virtù del passato”- va accettata perché inevitabile. Il che, però, non implica accettarne tutti gli aspetti.

Pagine davvero ricche di spunti, alcuni controversi, ma che ci ricordano come si debba sempre riflettere su come l’avanzare della modernità non dovrebbe essere disgiunta dalla “minimizzazione” della sofferenza. Leopardi non si faceva illusioni in tal senso ma rifletteva e ci obbliga a farlo. E questo effetto è provocato anche nel Dialogo tra Timandro, estimatore degli uomini, ed Eleandro, commiseratore degli uomini, scritto dal 14 al 24 giugno del 1824 e che avrebbe dovuto essere prefazione delle “Operette Morali”, opera filosofica di autentica e sofferta passione laica. Non è un caso che l’opera fu apprezzata da Nietzsche. Un dialogo non facile che riflette su come e se l’uomo sia perfettibile, un duello tra chi ha certezze e chi, diavoletto tentatore, mette tutto in discussione.

Ma da questo conflitto sul senso della vita balza fuori una riflessione di Eleandro, alter ego di Leopardi. Sembra detta a tutti noi. “Sentite. amico mio. Sono nato ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva… ora non mi vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché me stesso… con tutto ciò sono solito e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che essere cagione di patimento degli altri”.

Grande lezione anche dopo duecento anni. Forse ancora di più se sappiamo ascoltare le vere voci.

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