La candidata che mi sta seduta di fronte ha appena finito il colloquio dell’esame di maturità. È andato bene e ne è consapevole. La tensione che l’ha sostenuta fin qui cala all’improvviso. Le si riempiono gli occhi di lacrime. E no! Il ricordo della sua prova non può essere rovinato da una frignata. La guardo con l’espressione più gelida che riesco a fingere e la blocco: – Guardi che l’esame non è ancora finito. Dobbiamo discutere gli scritti. – All’stante ricaccia indietro le lacrime. Col mio miglior sorriso le faccio vedere lo scritto di Italiano, su cui posso fare solo considerazioni positive. Lo stesso fa il mio collega con la seconda prova. – Può andare – le dico – e adesso può piangere, ma fuori.- Invece se ne va sorridente e abbraccia le amiche che l’aspettano.
Ricordo spesso questo episodio, che risale a molti anni fa, e mi chiedo se la ragazza ha capito che la “iena” che è riuscita addirittura a non farla piangere lo ha fatto per lei, perché l’esperienza del suo esame le rimanesse nella memoria come un momento positivo perfetto.
Quando la maturità si avvicina, i media vanno in fibrillazione i primi due giorni e la “notte prima”, sulla suggestione del film di Brizzi e della canzone di Venditti. Poi più niente fino alla fine, quando viene comunicata qualche fredda statistica.
Io, invece, mi ritrovo ogni anno a pensare a tutte le emozioni che si vivono tra le due date, al lavoro che svolgono studenti e commissari, a come si intreccino rapporti che, pur essendo destinati a finire, restano indelebili nel ricordo per tutta la vita. Ripenso a tutte le volte che ho fatto parte di una commissione.
Poiché la mia materia era italiano, la fatica maggiore era la correzione della prima prova scritta; e dovevo fare uno sforzo per non odiare gli autori di quei temi: quasi tutti uguali, pieni di luoghi comuni, spesso retorici, senza una scintilla di originalità, un pensiero dissacrante, un’argomentazione “contro”. Il tutto espresso con un linguaggio improprio, quando non scorretto (Ho sempre fatto esami negli Istituti Tecnici). Poi, però, riuscivo ad indirizzare la mia avversione verso coloro che quei temi li avevano pensati, sicuramente seduti alle loro scrivanie ministeriali, lontani mille miglia dai problemi degli studenti, dalle difficoltà che la vita scolastica presentava ogni giorno. Mi rendevo conto che, di fronte a quei testi, non si poteva chiedere ai ragazzi di essere creativi; inoltre, essi non conoscevano l’insegnante che li avrebbe valutati, a meno che non fosse uno dei commissari interni; come avrebbe reagito? che ideologia aveva? avrebbe accettato un’argomentazione che contraddicesse il testo? Meglio andare sul sicuro, ripetere ciò che si era sentito dire da più parti. Come dar loro torto?
Quando, finita la maratona della valutazione degli scritti, iniziavano gli orali, tutto diventava più umano, per così dire: avevo di fronte delle persone e ci tenevo che uscissero da quell’esperienza con la soddisfazione di aver dato il meglio; ero contenta quando riuscivano ad argomentare autonomamente e, se erano in difficoltà, li sollecitavo con domande che li costringessero a pensare con la propria testa.
Quanti ragazzi mi sono passati davanti! Emozionati, timidi, allegri, scanzonati, dall’eloquio facile oppure muti, spaventati o disinvolti. Tutti tenerissimi, a ripensarci adesso. Chissà se sono riuscita a lasciare loro un bel ricordo della prova più importante della loro adolescenza.
You must be logged in to post a comment Login