Mi capita, a volte, di soffermarmi a pensare agli invisibili. Intendo quelle persone che, con il loro lavoro silenzioso, hanno contribuito a regalarci la bellezza e di cui non conosceremo mai il nome, la storia, le emozioni, lo spirito con cui hanno messo il loro talento al servizio dell’arte, senza pretendere visibilità. Ho avuto modo di rifletterci in due recenti occasioni.
Nella trasmissione sulle ultime scoperte di Pompei, in cui Alberto Angela percorreva l’area dei nuovi scavi, apparivano qua e là gli archeologi al lavoro: alcuni accovacciati a liberare un reperto dalla polvere di pomice, altri in piedi su ponteggi a restaurare un affresco, altri quasi confusi tra i ruderi, ognuno intento all’ opera delicatissima di far rivivere ambienti e situazioni. Di qualcuno comparivano in sovraimpressione il nome e la funzione; per brevi istanti, nemmeno il tempo di memorizzarli. Eppure, pensavo, è proprio grazie a loro che possiamo conoscere il passato, ritrovare, in un certo senso, le nostre radici. Per non parlare degli artisti che hanno ideato e realizzato quegli ambienti, quei dipinti e di cui non si sa nulla. E poi c’era, su un muro, il disegno di una manina infantile, non un’opera d’arte, un semplice profilo tracciato col carbone: chi era quel bambino?
C’è un’infinità di persone che hanno attraversato il tempo e lo spazio rimanendo anonime; alcune vivranno nelle loro creazioni e solo in quelle, ma di altre – restauratori, archeologi, scienziati – potremmo e dovremmo conoscere l’identità: dovrebbero essere loro le star del web, i modelli degli adolescenti.
Come i mosaicisti di cui ho avuto la fortuna di ammirare i lavori in una recente visita alla Fondazione Bisazza. Era l’ultima tappa di un fine settimana di visite culturali con Italia Nostra: la sede dell’azienda che produce mosaici, a Montecchio Maggiore, in provincia di Vicenza. Vi è custodita una collezione di opere d’arte realizzate con mosaico Bisazza, tutte formate da tessere di vetro, le più piccole di 2 x 2 cm, tagliate e assemblate a mano. Non solo pannelli bidimensionali o rivestimenti di pareti, ma oggetti di uso comune riprodotti in dimensioni gigantesche e ricoperti di mosaici colorati o con l’aggiunta di fogli d’oro giallo o bianco: una poltrona, un lampadario, una caffettiera, un cappello, un guanto. E poi addirittura un’automobile con vasca da bagno a rimorchio e un aeroplano-salotto. Degli artisti che hanno ideato le opere si conosce il nome, ma degli artefici nessuna notizia. Eppure ciò che lascia senza parole è il loro talento, che fa accettare, se non apprezzare, anche il kitsch di alcuni manufatti.
Invisibili. Istintivamente penso sia un’ingiustizia, ma, riflettendo, non so quale valore aggiunto potrebbe venire, per noi e per loro, dal conoscerne l’identità. Vedere la propria opera finita a regola d’arte e sapere di esserne gli autori: è questo il loro premio, la parte di sé che sanno di lasciare al futuro. E il nostro apprezzamento non è legato alla fama dell’artista. Infatti, di quante star del design che espongono in quelle sale ricordo oggi il nome?
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