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Libri

ZIO NICOLA

FERNANDO DE MARIA - 14/06/2024

demariaS’intitola “Si aspetta la sera” il nuovo libro di racconti-verità firmato da Fernando De Maria. Ecco il brano che dà il titolo alla raccolta.

Si chiamava Nicola il fratello maggiore di mia madre. Nell’inverno del 1929, quando morì di broncopolmonite la loro mamma, avevano rispettivamente nove e sette anni. Abitavano a Foglianise, un paesino del beneventano che sorge ai piedi del monte di San Michele La loro era una casa di cortile, dove l’acqua veniva portata con le brocche dalla fontana (situata nella parte bassa del paese) e il pane cotto in un forno “collettivo”. Ricordo che il profumo del pane rimaneva per diversi giorni in cortile. Per motivi di lavoro i miei genitori si trasferirono a Napoli nel ‘54’, “parcheggiando” a Foglianise il più vivace dei figli. Frequentavo la seconda elementare. Conservo ricordi sbiaditi di quel periodo: dormivo “al caldo”, fra i nonni ed avevo compagni che si chiamano Mario, Zazà, e il figlio di Scassacassa”. Roberto era il titolare dell’unico negozio d’alimentari al centro del paese mentre Pedicini il medico condotto. Il maestro di scuola si chiamava Garofalo o Garofano, lo ricordo bene per le “bacchettate” sulle mani. I momenti migliori però li trascorrevo col nonno Emilio, con il quale collaboravo nei lavori di cortile: pulizia del pollaio e del porcile, il becchime per i piccioni, il dito nel … delle galline per “sentire” se avevano in programma le uova. Insomma, se mi avessero chiesto quale lavoro avrei desiderato fare da grande, non avrei avuto dubbi: “ il guardiano dell’aia”. Roberto, quello del negozio d’alimentari, possedeva anche un mulino dove la gente andava a macinare il grano. Nei giorni in cui non avevo scuola, andavo anch’io: tornavo a casa come il figlio dell’imbianchino. Non vorrei dilungarmi, ma, prima di conoscere “l’oblio” desidero ricordare la zia Mariantonia, quella della tabaccheria: vendeva il sale e le sigarette sciolti. Questa zia non mi piaceva perché, quando mi baciava, mi pungeva con i baffi. Non esistevano famiglie ricche a Foglianise: quelle agiate possedevano terreni coltivati prevalentemente ad ulivi, grano e vigneti. Al mattino, a colazione, mangiavo il pancotto; a merenda pane e noci, pane e olive o pane e pomodoro. Regnava la quiete in quel paesino di campagna. Un silenzio spezzato solo dal frinire delle cicale nei giorni d’estate e dal rumore dei carri che andavano e tornavano dalla campagna. Confrontata con l’attuale società, era quello un mondo semplice nel quale esisteva la gioia di vivere. Invisibile e discreta, sull’uscio di ogni abitazione, pareva scritta la parola “partecipazione”. Era come se ciascuno dovesse aderire alle gioie e ai dolori degli altri. Chi non aveva, riceveva, in nome di una pietà universale tramandata da padre in figlio e da generazione in generazione. Quando la nonna morì il peso della famiglia ricadde su mia madre. Dovette lasciare la scuola — frequentava la seconda elementare — ed accudire i fratellini, l’ultima dei quali aveva quattro mesi. Divenne dura la vita per quella “mamma bambina”. Questo l’ha resa forte e protettiva: non solo nei confronti dei figli, ma anche delle persone in difficoltà.

Sono passati molti anni. La mamma se n’è andata. Ora vorrei ricordare suo fratello Nicola: uno zio che ella prendeva sempre come esempio quando mi rimproverava per i brutti voti. << Sei un asino! Pensa allo zio Nicola! Studiava di nascosto: di giorno, di notte, alla festa; era il primo della classe e andava a scuola con le “pezze”, ma onorava il ricordo di sua madre. Una mamma che, prima di morire, gli aveva chiesto di diventare professore! >>.

“Zio Nicola qua, zio Nicola là!” A forza di nominarlo, era riuscita a farmelo odiare: un sentimento che durò fino alla notizia della morte del figlio, a 33 anni, in un incidente stradale. Era l’unico: laureato in giurisprudenza operava presso il tribunale di Napoli. Il sinistro avvenne a causa di un tamponamento sulla strada per Castrovillari.

Scrivo di quest’uomo, non solo perché divise con mia madre un’infanzia infelice ma, soprattutto, perché da adulto divenne un personaggio molto amato nella città partenopea. Altri zii e mio padre stesso mi confidarono che per molta gente era “l’uomo per tutte le stagioni”. Abitava al “Vomero”. Professore di matematica, era dotato di una saggezza e di una intelligenza fuori del comune. A lui si rivolgevano gli studenti dopo l’università e persone bisognose di semplici consigli. Avrebbe potuto fare il giudice, l’avvocato, lo scienziato e il sacerdote: scelse di esaudire il sogno di sua madre.

Un giorno, sul finire degli anni ‘60’, venne a Varese. Non lo vedevo dagli anni d’infanzia. Mi colpì la sua bellezza: era un uomo alto, con gli occhi scuri, la pelle olivastra e i capelli neri. Parlava poco, come se i suoi pensieri fossero altrove. Osservandolo ripensavo alle parole di mia madre:<< Non ha mai dimenticato…>>

C’è stato un tempo in cui lui e la mamma si sentivano spesso al telefono; poi dalla scomparsa del figlio, scese un grande silenzio. Fu allora che la mamma chiese a noi figli di chiamarlo: anche solo per salutarlo. Temeva di rattristarlo. Un giorno lo chiamai e, quando gli chiesi: << Come stai zio Nicola?– rispose — si aspetta la sera…>>. Non avevo capito il senso di quelle parole pronunciate dopo un breve silenzio con una voce flebile, non sua. Promettemmo di richiamarci in un’altra occasione. Fu l’ultima volta che gli parlai. Però mi scrisse: poche righe dalle quali trasparivano un dolore sconfinato e l’affetto per mia madre. Un tumore alla testa se lo portò via in pochi mesi. “ Si aspetta la sera…” Cosa voleva dirmi? Fu una zia, forse quella che gli era stata più vicina, a svelarmi il significato. Zio Nicola, dalla morte del figlio, aveva chiuso ogni rapporto con il mondo esterno: niente visite, niente uscite e, lentamente, niente telefonate. Il suo giorno era concentrato in poche ore: quelle che andavano dal tramonto alla sera. Un tempo nel quale lui e la moglie si chiudevano nella stanza di Emilio per recitare il rosario. Chi avesse potuto vederli – disse la zia – sarebbe stato testimone di un evento che sovrasta il dolore per la morte di un figlio. Zio Nicola e zia Jole, inginocchiati intorno al comodino di una stanzetta, pregavano. Davanti a loro una candela illuminava un volto sorridente. La luce fioca inondava i muri, il letto, la scrivania e, appoggiato ad una sedia, il maglioncino grigio che il figlio indossava la sera precedente…Pregavano, ricordavano. Ciò che colpiva era la serenità con cui vivevamo la tristezza dell’incontro: un appuntamento quotidiano in cui dividevano insieme l’amore e il dolore. Quel figlio rappresentava la continuità della loro esistenza. L’avevano atteso e cresciuto coltivandolo come un fiore. Dio lo aveva chiamato. Ora però lo ritrovavano, ogni giorno, nelle preghiere della sera. “L’amore si oppone alla morte >> scrive Tolstoj in “ Guerra e Pace“. Zio Nicola e zia Jole lo avevano compreso. La recita del rosario altro non era che un richiamo simile al suono di un corno di caccia, pareva dir loro: << Non rattristatevi! Vivo nel vostro cuore >>.

Pierfausto Vedani, firma storica del giornalismo varesino, in uno dei suoi ultimi articoli scrisse che i personaggi “storici”, quelli che maggiormente amarono ed onorarono la città, non devono essere dimenticati. L’unico modo è scrivere, parlare, per “tenerli in vita” e tramandare ai giovani il loro esempio.

Chiedo scusa se ho raccontato la storia di un uomo sconosciuto a Varese. Ora di Nicola Tucci non rimane che una lapide nel cimitero di Foglianise. Nessuna frase, nessuna epigrafe racconta la sua vita. È tornato l’autunno. Sui vialetti e sulle tombe cadono le prime foglie; il vento accarezza il suo nome: ”Nicola Tucci –1920—2004 “ Si aspetta la sera…”Non so’ perché dopo tanti anni ho ricordato quelle parole. Non so’ perché, fra mille pensieri, ho evocato uno zio che ho conosciuto appena. Forse perché è cresciuto con mia madre: forse perché il suo destino mi ha insegnato ad amare la sera.

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