Si vota per l’Europa e il governo getta la maschera. Si rivela il ministro Matteo Salvini che in passato strizzava l’occhio agli elettori cattolici baciando i crocifissi e raccomandandosi alla Madonna e ora censura il Consiglio pastorale della diocesi di Padova che suggerisce agli elettori di privilegiare chi è sensibile ai temi dell’accoglienza e dell’integrazione: “La Chiesa – stigmatizza il leader della Lega – si preoccupi di essere guida spirituale, non politica”. Si appalesa anche la ondeggiante premier Giorgia Meloni che prima di entrare a Palazzo Chigi diceva di non capire papa Francesco e, diventata capo del governo, ha provato a ingraziarsi il Vaticano. Ma ora, abbandonata ogni cautela, attacca frontalmente la conferenza dei vescovi e il suo presidente Matteo Zuppi.
L’accusa? Meloni non perdona all’arcivescovo di Bologna di avere biasimato il governo per la durezza dimostrata nei confronti dei migranti (un atteggiamento che ha prodotto il caso Cutro), di avere criticato l’esecutivo per il progetto dell’autonomia differenziata che aggrava la spaccatura fra le regioni del nord e quelle del sud e la riforma del premierato che tocca gli equilibri costituzionali e può decretare la fine del Parlamento. “Non so cosa esattamente preoccupi la Cei visto che il premierato non interviene nei rapporti tra Stato e Chiesa – ha ribattuto indispettita – Non mi pare che lo Stato Vaticano sia una repubblica parlamentare”. Per dirlo ha scelto la tv amica dei Berlusconi, illudendosi di dimostrare in questo modo che la Rai post-occupazione non è diventata Tele Meloni.
A proposito di Rai e di libertà d’informazione, il governo non ha alcuna intenzione di modificare la legge sulla governance della tv pubblica voluta nel 2015 dall’allora premier Matteo Renzi con l’introduzione della nomina diretta dei vertici da parte dell’esecutivo (amministratore delegato e direttore generale). Nel marzo scorso il Parlamento europeo ha approvato il Media Freedom Act che tutela la libertà di stampa da ingerenze politiche ed economiche e obbliga gli Stati membri a proteggere l’indipendenza dei media dalle intromissioni extra-editoriali. La riforma Renzi allora va riscritta? Nossignori, dice il governo. Nel negoziato in corso con Bruxelles Palazzo Chigi nega che la normativa italiana contrasti quella europea. Avanti così.
Si va alle urne ed è un voto decisivo. L’Europa va rinforzata e non indebolita lasciandola in balìa degli egoistici interessi sovrani dei Paesi che la compongono. Guai a spaccarla ulteriormente anche perché l’alleata America ha i suoi problemi. “È uno Stato fascista”, “quel giudice mi odia”, “i democratici mi vogliono morto”, “se hanno fatto questo a me può succedere anche a voi” incita alla sovversione Donald Trump dopo la sentenza unanime pronunciata da dodici giurati newyorchesi per i 34 capi d’imputazione di cui il tycoon doveva rispondere. Candidato alle elezioni Usa del 5 novembre, Trump è stato riconosciuto colpevole di aver falsificato documenti fiscali per coprire il pagamento delle prestazioni sessuali di una pornostar.
L’entità della condanna sarà definita nell’udienza dell’11 luglio e il magnate aizza i “suoi” alla rivolta come è già accaduto con l’assalto al Congresso il 6 gennaio 2021. È l’ennesimo disgustoso spettacolo del tracotante potere dei soldi. In virtù dei suoi miliardi Trump non si assoggetta alle regole della democrazia, si ribella alla magistratura, si rivolta contro le istituzioni e invita milioni di connazionali a fare altrettanto. In Italia il segretario della Lega Salvini si è affrettato a dire che Trump è “vittima di persecuzione giudiziaria”, il premier ungherese Orban lo ha invitato “a continuare a lottare” e il portavoce del Cremlino Peskov ha insinuato dubbi sulla equanimità della sentenza. Sperando che il caos in Occidente spiani la strada alle ambizioni russe.
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