Gaspare Pappalardo è morto. Era ricoverato, da gran tempo ormai, all’ospizio di Besano. Aveva ottantotto anni.
Nella Varese opulenta e distratta degli anni Sessanta, in quella buia e timorosa dei Settanta e in quella ilare e cicala degli Ottanta non è stato un clochard. Gaspare era il clochard. Benché non completamente integrato nel sistema, che è espressione dal vago sentore marxistico, si può dire che facesse parte del paesaggio.
Le signore ingioiellate che uscivano dalla rosticceria Valenzasca tenendo tra le mani un cartoccio ben confezionato lo guardavano con occhi di compatimento e compiaciuti al tempo stesso. Non molestava i bambini – anzi li divertiva – , non era pericoloso a sé e agli altri. Tutt’al più aveva il naso rubizzo e emanava odore di vino. Bastava stargli un po’ a distanza.
I signori non l’avrebbero invitato al Rotary a parlare di Venezia e del Danieli, dove si diceva avesse lavorato, però gli manifestavano simpatia. Anche le istituzioni erano benevole con lui: l’Ospedale di Circolo, in cui trovava sempre un pasto caldo e un letto per svernare; il Tribunale, che al massimo gli dava una strapazzata… Anche quella volta in cui era salito su un pullman posteggiato davanti alla stazione, l’aveva messo in moto – sembra che avesse imparato a guidarlo durante il servizio militare – ed era andato a fare un giretto; il giornale quotidiano dove ho lavorato per quasi quarant’anni in molte notti d’estate gli riservava una sosta su un divanetto di pelle posto nell’atrio e il mattino Gaspare trovava anche qualche tipografo di buon cuore che gli offriva la colazione.
Insomma era un clochard, ma non solo. Era anche uno stravagante, attempato e romantico goliardo vestito in modo originale: camicia e cravatta, giacca militare, pantaloni infilati in un paio di stivaletti di gomma, in testa un elmetto di foggia tedesca e – appoggiato all’orecchio – un mangiadischi o una radiolina a pieno volume.
Comunque sia era stato bene accolto. Forse il villaggio ha cominciato un po’ a preoccuparsi quando le sue comparsate si sono fatte più rare e a sentirne la mancanza, come se le sue trasgressive intemperanze fossero tutto sommato funzionali a un quieto tran tran bosino; come se fosse un alibi. La tolleranza zero, che con Gaspare mai aveva avuto una ragion d’essere, ha trovato per contro altri obiettivi: i Rom fermi ai semafori per la questua, le donne con il burka, i venditori di roselline del Bangladesh, che qualcuno – a un paio di settimane dal Natale – avrebbe voluto allontanare dalla città.
Insomma, il monito evangelico dell’ “ero straniero e mi avete ospitato” ha trovato un sacco di distinguo e di se e di ma. Esistono diversi più… uguali degli altri. Con Gaspare era un’altra cosa, era tutto più facile.
M.B.
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