Cento anni fa, il 3 giugno 1924, Franz Kafka moriva nel sanatorio di Kierling, consunto dalla tubercolosi.
Era nato a Praga, capitale boema dell’allora Impero asburgico, il 3 luglio 1883 da Hermann, commerciante ebreo boemo, e da Julie Löwy. Anche se completò gli studi in scuole tedesche e scelse la lingua tedesca per la sua futura carriera di scrittore, nutrì una profonda curiosità nei confronti della città boema.
Con i suoi colleghi d’ufficio parlava il ceco, frequentava i comizi politici e leggeva poeti e scrittori boemi. Non si conclude qui il debito di Kafka nei confronti di Praga, la cui presenza si percepisce tra le pagine dei suoi libri. Nel romanzo Il Processo è anonima, mai menzionata, tuttavia si riconoscono i quartieri, il duomo di San Vito e il ponte Carlo, a dimostrare che la creatività dell’autore boemo ha come sfondo la magia della città vltavina.
Kafka, passeggiando per le vie di Praga, sperimentava la vitalità della popolazione osservando strade, caffè e teatri, che suscitavano in lui un senso di angoscia e un desiderio di terre lontane, come si avverte nel romanzo America, insieme ad un sentimento di estraneità, di ripulsa e di disorientamento, sostrato fondamentale de Il Castello, suo ultimo libro.
Noto al grande pubblico grazie al personaggio di Gregor Samsa, protagonista de La Metamorfosi, l’autore boemo dimostrò la sua originalità anche in scritti meno noti, come in Nella colonia penale, racconto pubblicato nel 1919 quando la Prima Guerra Mondiale si era da poco conclusa e l’Impero austro-ungarico era sparito dalla carta geografica.
Nella narrazione, un viaggiatore approda su un’isola tropicale, arcaica nella sua legge disumana, in cui una macchina di torture prima attiva e ora dismessa gli viene mostrata dall’Ufficiale, suo fedele e orgoglioso custode. Tre sezioni la compongono: un letto per accogliere il Condannato, un incisore, e un erpice che tatua sulla schiena del colpevole il reato commesso. Nell’arco di sei ore la procedura si conclude e il Condannato può decifrare il messaggio, per morire in uno stato di redenzione.
I significati del racconto sono molti, ma è interessante notarne uno particolarmente adatto al nostro tempo, che riconosce nell’ordigno di tortura la metafora della macchina bellica. Con la promessa della redenzione, il marchingegno fa morire in bellezza, come la propaganda imperialista guerrafondaia del tempo di Kafka.
In verità non c’è redenzione ma solo asservimento e disumanizzazione, che insieme rendono l’uomo, come capita all’Ufficiale, un ingranaggio obbediente alla macchina di tortura. Al di là del biasimo di Kafka nei confronti dell’ideologia della guerra, la critica ha sottolineato che la macchina descritta nel racconto può costituire un’anticipazione della meticolosità omicida dei regimi totalitari, che perpetravano i loro crimini efferati grazie al lavoro di uomini-burattini, le cui sembianze, secondo Günther Anders, sono riconoscibili nell’Ufficiale kafkiano, immagine archetipica dell’uomo delle SS, grigio impiegato e metodico produttore di cadaveri, del tutto deresponsabilizzato.
Anche in un racconto meno noto come questo, Kafka si riconferma al pubblico dei lettori nella veste di «autore di perpetua avanguardia», come scrisse Italo Alighiero Chiusano, la cui penna induce a riflettere ancora oggi sia sulla capacità di previsione della letteratura, sia sulla necessità di conservare e promuovere un’umanità critica e positiva, della quale si avrà sempre bisogno.
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