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Politica

RICORDIAMOCENE

ROBERTO CECCHI - 31/05/2024

nazioniGeneralmente, l’Unione Europa (UE) non è argomento di conversazione e, quando se ne parla, non è quasi mai per dirne bene. Perché è vista come un’istituzione distante, difficile da collocare anche solo geograficamente, con tutte quelle sedi a Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo. E non si capisce neanche bene che cosa faccia e di che cosa si occupi. Oltretutto, è difficile comprendere le differenze tra gli organismi che la compongono, il Parlamento, il Consiglio, la Commissione, la Banca Centrale (oltre alla Corte di Giustizia e alla Corte dei Conti). I parlamentari che ne fanno parte, spesso, sono politici che hanno maturato i classici due mandati come sindaci e non potendo fare altro, vengono spediti in UE. Dopodichè, dopo essere stati eletti, spariscono alle viste, non se ne sa quasi più nulla, come se stessero in una sorta di pre-pensionamento. Insomma, almeno per ora, quest’Unione Europa non ha dimostrato di avere appeal, di suscitare emozioni. E quindi non dà l’idea di lavorare per un interesse comune.

Non è una percezione isolata. È dimostrato che le elezioni europee sono elezioni di «secondo ordine», (Karlheinz Reif e Hermann Schmitt già nel 1980), poco rilevanti e con scarsa affluenza. Il distacco da quest’istituzione s’è toccato con mano, qui da noi, in Italia, alle ultime elezioni del 2019, quando gli scettici anti-europeisti ottennero risultati importanti, con il 35% dei consensi alla Lega, il 17% al Movimento 5 Stelle e il 5% a Fratelli d’Italia. Col leader leghista a capo del gruppo più antieuropeo e sovranista di Identità e democrazia, insieme al Rassemblement national di Marine Le Pen e Alternative für Deutschland, che non nasconde simpatie naziste. Già dal 2018 la Lega accarezzava l’idea di uscire dall’euro. Un atteggiamento che ha un po’ rivisto solo dopo essere entrata nel primo governo Conte, pur continuando a corteggiare tutte le lobby contrarie al sistema normativo europeo (Formigoni 2024).

Probabilmente, adesso, il vento un po’ sta cambiando. L’UE, in almeno due circostanze, durante la pandemia da Covid 19 e con la guerra in Ucraina, ha dato risposte efficaci ai problemi della collettività europea. Forse, ormai, ce lo siam quasi dimenticato, ma la pandemia – che non è stato solo un problema sanitario – fu affrontata in sede europea con un programma straordinario di acquisto di titoli da 750 miliardi di Euro, evitando che la crisi sanitaria diventasse anche un problema finanziario. Fu sospeso il Patto di stabilità, dando la possibilità “ai governi di disporre dalla seconda metà di marzo 2020 di misure massicce di sostegno all’economia, limitando i danni al tessuto produttivo e sociale […]. Oltre 31 milioni di lavoratori e due milioni e mezzo di imprese

hanno beneficiato del sostegno di Sure [State Supported short-time work], evitando un milione e mezzo di disoccupati in più. In Italia, nel 2020 più del 50% dei lavoratori e circa la metà delle imprese hanno beneficiato del sostegno offerto da Sure. È anche grazie a Sure se nel 2020, nonostante il calo vertiginoso della produzione, la crescita della disoccupazione è stata molto modesta, e molto inferiore rispetto alle previsioni iniziali” (Gentiloni 2024).

Poi, l’invasione russa dell’Ucraina. Nella sua strategia criminale, tra le altre cose, l’autocrate del Cremlino contava sul fatto che l’Europa, anche stavolta, avrebbe chiuso un occhio di fronte alle sue prepotenze, vista la nostra dipendenza dal suo gas e dal suo petrolio. Pensava che ci saremmo divisi, andando in ordine sparso a cercar di ottenere garanzie, ciascuno per le proprie forniture. E invece è successo esattamente il contrario. L’UE ha organizzato una regia che ci ha consentito rapidamente di diversificare le fonti d’approvvigionamento e di non subire il ricatto. I prezzi che erano saliti alle stelle, rischiando un’altra recessione, si sono rapidamente raffreddati. Ma anche questo, forse, ce lo siam già dimenticato. Mentre andrebbe tenuto presente, soprattutto adesso, che non è il momento (e non lo è mai stato) di un’Europa delle piccole patrie “Ogni Stato piccolo-medio rischia di essere rapidamente marginalizzato, di divenire rapidamente ininfluente nella politica e nell’economia internazionale, restando in balia delle scorribande di altre potenze politiche ed economiche” (Formigoni 2024). Non dobbiamo farci illudere da qualche pifferaio magico, sempre pronto a raccontar balle. Il futuro sta nella collaborazione sempre più strutturata tra quelle democrazie che da secoli si riconoscono parte di una stessa cultura, pur non riuscendo ancora a parlare la stessa lingua. Non ci sono altre strade.

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