C’è una data del mese di Maggio che chi ama il calcio non può dimenticare. Soprattutto se si è milanisti di antico conio come il sottoscritto. Si tratta di domenica 13 Maggio 1979 quando Giovannino Rivera, detto Gianni, rinuncia al pallone. Sette giorni prima il Milan aveva finalmente conquistato il decimo scudetto, quello della stella, ma l’avvenimento era stato messo in ombra dall’annunciato addio al calcio del capitano. Su San Siro era sceso un velo di tristezza, un sapore agrodolce di festa finita.
La luce di Rivera si spegne al termine di una inutile partita con la Lazio: uno a uno. Tre mesi dopo avrebbe compiuto trentasei anni, diciannove dei quali in maglia rossonera, dodici in veste di capitano e una serie impressionante di successi: tre scudetti, due Coppe dei campioni, una coppa intercontinentale, due Coppe delle Coppe, sessanta presenze in nazionale e quattordici reti segnate, quattro Coppe Italia. Consegnato alla storia italiana del pallone come il centrocampista più prolifico di sempre (122 goal in 501 partite in campionato), è il primo calciatore italiano a conquistare il Pallone d’Oro nel 1969.
Era approdato al Milan dall’Alessandria dove aveva esordito a quindici anni contro l’Inter. Un destino. Buon per il Milan e per il gran popolo rossonero che il suo raffinato talento e le sue immense qualità fossero sfuggite agli osservatori della Juventus che in quegli anni controllavano da vicino i vivai piemontesi. Approda a Milano con la famiglia in un piccolo appartamento di piazzale Velasquez. A firmare un sostanzioso contratto è il padre Teresio, di professione ferroviere; lui Gianni non è ancora maggiorenne. Allora la maggiore età arrivava a ventuno anni. L’esordio ufficiale avviene in Coppa Italia il 18 settembre 1960. Comincia il suo decennale sodalizio con Nereo Rocco, nuovo allenatore rossonero e suo “secondo padre” calcistico. Da subito in campo si dimostra un leader capace di illuminare la squadra, di prenderla per mano quando vince ma anche di sostenerla nei momenti di difficoltà. Pensa e inventa calcio disegnando traiettorie e creando corridoi di gioco che talvolta neppure i compagni intuiscono. E allora Gianni si ferma sconsolato, le braccia abbandonate lungo i fianchi, sul viso una smorfia di evidente disappunto. Non è esattamente un cursore né tanto meno un recuperatore di palloni, ma un fantasioso e imprevedibile architetto del centro campo. Lungo la sua carriera almeno tre colleghi si spremono al servizio del suo genio euclideo: i due Giovanni (Trapattoni e Lodetti) poi Romeo Benetti. In campo Rivera è un passionale freddo che si assume sempre la responsabilità di quello che fa e di quello che dice. Memorabili le sue polemiche con gli arbitri, in particolare con Concetto Lo Bello e con il designatore Campanati. Non meno serrata quella con il sovrano dei giornalisti sportivi dell’epoca, Gianni Brera, prima firma del Giorno e grande innovatore del linguaggio calcistico. Con beffarda ironia lo definisce “abatino” Giuanbrerafucarlo, così si era auto ribattezzato, gli riconosce grandissima tecnica e tocco di palla sublime, ma gli rimprovera di mettere in campo “scarso nerbo atletico” e nelle giornate no di “inciampare nei fiori”. La piazza rossonera ovviamente non gradisce. Un pomeriggio di primavera – credo del ’73 – un migliaio di tifosi blocca per un paio d’ore gli ingressi del quotidiano dell’Eni, allora in via Angelo Fava, innalzando striscioni e scandendo slogan anti Brera accusato di essere, sotto traccia, filo interista. È una polemica in realtà funzionale a entrambi. Il cronista di San Zenone Po dà ulteriore lustro al suo già prospero mercato editoriale mentre l’alessandrino ha buon gioco nell’argomentare attraverso la televisione, nuovo specchio del pallone italico. Storica una sua intervista televisiva in tram concessa al geniale cronista Rai Beppe Viola. La tenzone dialettica tra il campione e il suo critico diventa un vezzo ricorrente delle vigilie e dei post partita milanisti. Sanno entrambi che il loro dualismo asimmetrico è destinato ad esaurirsi non appena l’atleta lascerà il calcio per raggiunti limiti di età. Accade, come detto, quella domenica pomeriggio di quarantacinque anni fa. L’indomani Brera chiude così la sua cronaca: “orrida vecchiezza ridammi il mio abatino”
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