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Storia

COMPLICI

SERGIO REDAELLI - 24/05/2024

La Lancia Lambda usata per sequestrare Giacomo Matteotti

La Lancia Lambda usata per sequestrare Giacomo Matteotti

Il 10 giugno ricorrerà il centenario del delitto del deputato socialista Giacomo Matteotti, barbaramente rapito e picchiato a morte a Roma da un gruppo di delinquenti al soldo del Viminale: con queste parole Marco Tamborini inizia l’articolo “Connessioni varesine sul delitto Matteotti” pubblicato nella Rivista della Società Storica Varesina per il 2024 che lo stesso Tamborini dirige. Un articolo-scoop che rivela circostanze inedite ed è insieme un atto d’accusa contro la censura della libertà di stampa. Spiega infatti l’autore: “Il delitto Matteotti avvenne nel 1924 quando i giornali godevano ancora di una certa libertà d’azione e poterono scrivere della vicenda. Se fosse avvenuto due anni più tardi quando entrarono in vigore le “leggi fascistissime” e la censura, non avrei trovato le tracce dei complici varesini sulla stampa d’epoca”.

Grazie dunque alle notizie riportate dalla Cronaca Prealpina, dall’Avanti, dal Corriere della Sera e da altri quotidiani, Tamborini sintetizza in 17 pagine fatti nazionali e risvolti varesini a cominciare dalla morte di Albino Volpi, l’uccisore materiale di Matteotti. Nato a Lodi, falegname, pregiudicato per reati comuni, arruolato nel 25° reparto d’assalto degli Arditi, era noto per azioni di violenza temeraria. Al momento del sequestro ferì Matteotti con il tirapugni, si prese un calcio ai testicoli nella colluttazione che seguì in macchina e reagì vibrando la pugnalata che perforò un polmone al politico antifascista. Così testimoniò la moglie al processo del 1946.

Progressivamente allontanato dal fascismo militante, dopo varie traversie Volpi acquistò una casa di villeggiatura in Valganna, si ammalò e morì all’ospedale di Circolo nel 1939. Mussolini lo onorò inviando un fascio di garofani al funerale. Di Vizzola Ticino, in provincia di Varese, era Aldo Putato, ragioniere e ispettore viaggiante del Corriere Italiano, poi titolare dell’agenzia Agip di Castellanza ottenuta con i buoni uffici del regime, arrestato in relazione al rapimento e poi assolto dal Tribunale di Varese nel 1946: “Se accertata fu la sua partecipazione alle fasi preparatorie del sequestro Matteotti – scrive il direttore della Rivista – i vari processi non poterono stabilire con certezza la sua presenza sulla Lancia Lambda al momento dell’aggressione e del successivo pestaggio e uccisione dell’onorevole socialista”.

Il primo processo per il delitto Matteotti si tenne nel 1925-1926 nell’aula della Corte d’assise di Chieti durante il Ventennio fascista. Nel 1946, il procedimento fu riaperto a Roma e l’anno successivo emise le sentenze definitive nei confronti dei pochi che ancora erano in vita o detenuti. Lo stesso Amerigo Dumini, ritenuto l’organizzatore del sequestro, fu graziato e liberato nel 1956 e morirà a Roma nel 1967. L’autore dell’articolo spiega di aver basato la sua indagine sul libro di Mauro Canali “Il delitto Matteotti, affarismo e politica nel primo governo Mussolini” pubblicato a Bologna nel 1997 che raccoglie le testimonianze processuali. Tamborini ha poi indagato sui legami varesini, collegandoli e cucendoli insieme ai fatti nazionali.

“Gli esecutori e i loro complici – spiega – furono coperti dal regime che provò a nascondere la verità il più a lungo possibile. Anche non avere trovato il corpo di Matteotti per due mesi contribuì a creare una coltre di nebbia sulla vicenda”. Tra i personaggi di secondo piano coinvolti nell’inchiesta, l’articolo ricorda Otto Thierschald, un avventuriero austriaco con contatti a Busto Arsizio che Dumini aveva incaricato di sorvegliare i movimenti di Matteotti e gli spostamenti in treno dalla sua abitazione romana. Fu accusato dalla stampa di regime di essere un agente russo nell’ambito di un intrigo internazionale e infine prosciolto a Chieti nel 1926 dall’accusa di avere partecipato al crimine.

Altri sospettati di avere avuto un ruolo nell’attentato riuscirono a dileguarsi in Francia sfuggendo alle ricostruzioni giornalistiche, alle istruttorie e ai processi. Come Filippo Panzeri, nato a Varese secondo la Questura di Milano e secondo altre fonti riportate dalla Cronaca Prealpina. Di professione panettiere a Milano, pregiudicato per reati comuni, fu individuato come membro degli arditi milanesi che con Dumini parteciparono al sequestro e controllato nei suoi spostamenti a Marsiglia. Ma nel processo del 1946-‘47 fu prosciolto per insufficienza di prove.

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