In occasione del voto europeo (8-9 giugno) vale tornare indietro di 165 anni, raccontando d’Ernesto Cairoli, patriota caduto il 26 maggio 1859 a Varese nell’impresa storica del Risorgimento. Ne comprenderete poi il motivo.
Custodiamo del Cairoli, cui s’intitola il liceo classico, la memoria di combattente eroico, sognatore barricadiero, capo carismatico. Fu l’anima di cospirazioni giovanili per far circolare tra i compagni dell’università di Pavia i libri vietati dalla censura austriaca; il militante della spedizione al fianco di Garibaldi quando a metà dell’Ottocento sbarcò a Sesto Calende; l’avanguardista temerario della battaglia di Biumo inferiore, sino a che una fucilata non lo uccise.
Apparteneva a una dinastia in familiarità con la gloria. Il fratello maggiore Benedetto, divenuto deputato del Regno d’Italia e due volte ministro, prese parte alla spedizione dei Mille. Luigi, sottotenente delle camicie rosse, morì di tifo a Napoli nel ’60. Enrico, idem fedelissimo del Generale, venne assassinato a Villa Glori nel ’67 e Giovanni, rimasto ferito nella circostanza, si spense due anni dopo a Belgirate invocandolo nel delirio. Erano i figli del medico chirurgo Carlo e della contessa Adelaide Bono, definita “patriotticamente italiana fino al romanzo”. E che romanzo, tragico purtroppo.
Al podestà Carlo Carcano, firmatario d’una commossa lettera all’indomani della tragedia di Biumo (oltre a Ernesto spirarono altri diciassette garibaldini, e nove nei giorni successivi), Adelaide ebbe forza morale, spirito religioso e determinazione politica rispondendo: “Spero che Dio vorrà farmi trovare quell’elemento di vita che valga a sorreggermi, finché io possa veder libera la nostra Italia, come la chiede il sacrificio tutt’ora invendicato dei nostri poveri martiri”.
La morte di Ernesto e il gigantismo morale/epico dei congiunti colpirono talmente Garibaldi da indurlo a impartire, il giorno successivo all’ecatombe biumensina, una nuova parola d’ordine ai seguaci: “Santo Cairoli”.
E fin qui un minimo di dovuto promemoria storico. Ora va aggiunta -ecco il riferimento all’attualità- la postilla giustificatrice dell’incipit. Ovvero: anziché perdersi nell’astratto di vaghezze politiche, sarebbe meglio attenersi a esempi concreti. Quello di Ernesto Cairoli è uno. Oltre che nel dovere di dar forma all’Italia unita, superando particolarità ed egoismi, credeva nei fondamentali del vivere individuale/collettivo: la dedizione al bene comune, il pretendere molto da sé stessi così da poterne richiedere un poco agli altri, l’amore per la libertà. Anche e specialmente la libertà di pensieri opposti. Fu un pre illuminato, più che un post illuminista: possedeva il talento (la vocazione) verso la socialità virtuosa. Da declinare in una nazione tra le nazioni. Nel caso che elettoralmente c’interessa, in Italia pensando all’Europa.
Le derive della politica odierna, pressappochiste e volgari, sbiadiscono al confronto con la politica idealistica d’allora: la retorica dell’uno vale uno, della celebrazione strumentale dei “cittadini”, del sovranismo antistranieri un tanto a comizio e a sbarco, della bulimia delle parole e dell’anoressia dei contenuti, di compromessi/sotterfugi/elusioni mostra un mediocre risvolto populista-sovranista nel paragone con l’autentica tensione popolare che fu del Cairoli e d’una moltitudine degna di lui. Non dimentichiamo chi, come, perché seppe mettersi al servizio di tutti senza dirlo, e invece facendolo. Magari aiuta a dare una piccola scossa all’indifferenza grande delle coscienze e forse (augurabilmente) a smentire la sentenza di Giuseppe Prezzolini: in Italia nulla è stabile fuorché il provvisorio.
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