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Libri

FASCISMO DI PIETRA

SERGIO REDAELLI - 17/05/2024

Palazzo Littorio, ora Questura di Varese

Palazzo Littorio, ora Questura di Varese

Un edificio dai recessi lugubri, sede di un potere violento e arrogante, è oggi destinato a sede della Polizia di Stato, presidio di legalità a difesa delle garanzie costituzionali: così i curatori Serena Contini ed Enzo Laforgia presentano il protagonista in cemento armato del libro “L’arte svelata nel Palazzo della Questura di Varese”, già palazzo Littorio ed ex palazzo Italia inaugurato il 7 marzo 1933 per ospitare la sede del partito fascista. Un padrone di casa tanto accogliente da fare spazio alla sede del quotidiano Cronaca Prealpina, funzionale al regime dopo l’allontanamento del direttore Giovanni Bagaini: capita negli opachi rapporti tra potere politico e giornalismo se si confondono i ruoli. Un federale in camicia nera fu addirittura presidente del giornale.

Il cronista militante Mario Manuli all’epoca scriveva: “Salgono nel cielo sereno i canti che inneggiano alla giovinezza, mentre i gagliardetti come tante fiamme nere sorgono e si moltiplicano e vanno innanzi, primavera della Patria”. Lo stigma del fascismo e di ciò che il fascismo è stato nella storia di Varese, scrivono Contini e Laforgia, è indelebilmente impresso sulla sua pelle. Ed è scolpito nel suo volto. Un volto esibizionistico, sfrontato e monumentale che negli anni ‘30 del secolo scorso trasforma e cambia la storia edilizia di Varese fino a quel momento caratterizzata dal misticismo seicentesco delle cappelle del Rosario, dai tratti nobili della “piccola Versailles” estense, dalle vestigia garibaldine e dal lusso mondano dei grandi alberghi liberty del primo ‘900.

Il 6 dicembre 1926, con la promozione a capoluogo di provincia ordinata da Benito Mussolini, la città accresce i suoi 28.278 abitanti di 13.301 unità e pensa a un piano regolatore per sostituire l’agglomerato storico di piazza Porcari con nuovi edifici e una maestosa piazza. Il concorso è vinto dall’ingegnere romano Mario Loreti che – con un’imponente opera di demolizione di immobili confiscati – costruisce la nuova piazza Monte Grappa con le sedi dell’Inps e della Ras, l’edificio delle corporazioni oggi Camera di commercio, la Torre Littoria, il palazzo Castiglioni e la fontana.

Prende forma in città il cosiddetto “fascismo di pietra”. Loreti è lo stesso professionista che pochi anni prima ha ideato appunto il Palazzo Littorio che identifica il regime a Varese, la sede altera della federazione provinciale fascista con la poderosa torre dell’orologio, la campana con l’effigie del duce e i nomi dei caduti per la causa. L’incarico di abbellire gli interni viene dato al pittore marchigiano Giuseppe Montanari, formatosi a Brera e consacrato dalla Biennale di Venezia nel 1924, trasferitosi a Varese alla fine della Grande Guerra per amore di Nina Ghiringhelli, sorella di un compagno d’armi. La coppia si sposerà nel santuario di S. Maria del Monte, andrà a vivere in via Conventino e Montanari decorerà anche l’attuale Camera di commercio in piazza Monte Grappa, la Casa del mutilato e il Teatro Impero.

Il libro, che si articola in dieci interventi tecnici, completa il percorso iniziato con la mostra tenutasi nei locali della Questura nel biennio 2022-2023 e celebra quello che nel 2004 è stato riconosciuto “monumento di sicuro valore storico e architettonico” in grado di evocare la storia, di suscitare i ricordi e la memoria. I curatori spiegano che a partire dal 2018, sfidando “i fraintendimenti che un’operazione del genere avrebbe potuto generare nell’opinione pubblica”, iniziò un certosino lavoro di restauro delle pitture murarie firmate da Montanari tra il 1936 e il 1937. “Come sempre il restauro è un’occasione privilegiata di studio – scrive nel volume la restauratrice Rossella Bernasconi – la scoperta di due affreschi nella ex sala delle adunanze che si credevano persi ha portato alla ricerca e alla valorizzazione dei disegni e dei cartoni preparatori”.

Contini e Laforgia sottolineano nella prefazione che il lavoro di recupero si è completato con la riscoperta del Sacrario che “al di là dello stile funereo e della funzione meramente propagandistica, è una straordinaria testimonianza dell’arte ceramica di Laveno Mombello e di uno dei suoi massimi interpreti, Guido Andloviz. Un esempio pressoché unico di questa tipologia architettonica che è incredibilmente sopravvissuto al furente desiderio di voler cancellare, appena finita la guerra, le tracce materiali di una esperienza storica tragica e fallimentare”. Gli altri contributi presenti nel libro sono di Luca Traini, Roberto Nessi, Maria Partola, Anna Pariani, Enrico Brugnoni, Francesco Pino e Giorgio Fedeli.

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