All’inizio c’è un paradosso. Il Governo, almeno in teoria, più stabile e con una maggioranza sicura, sta puntando tutte le sue carte su di una riforma costituzionale definita “la madre di tutte le riforme”, cioè l’elezione diretta del presidente del Consiglio proprio per garantire una stabilità che c’è già. A parole l’obiettivo è quello di mettere al riparo i futuri Governi da quelli che vengono definiti “ribaltoni”, cioè dai cambi di maggioranza e dai cosiddetti governi “tecnici”. Un premier eletto dal popolo non dovrebbe infatti subire viti di sfiducia o dimissioni forzate: almeno in teoria perché non può essere escluso, anzi è esplicitamente previsto, il ricorso ad elezioni anticipate, elezioni che non possono certamente essere considerate, proprio perché anticipate, un elemento di stabilità.
Ma il vero obiettivo della riforma è quello di sbarrare la strada a governi tecnici, cioè guidati da esponenti non parlamentari, mantenendo la gestione del potere sotto lo stretto controllo dei partiti.
In effetti la più recente storia della Repubblica di governi “tecnici” ne ha avuti più di uno: da Ciampi a Dini, da Monti a Draghi. Ma non bisogna dimenticare che governo tecnico non vuol dire Governo extra-parlamentare. Tutti, hanno ottenuto la fiducia dei due rami del Parlamento come prevede la Costituzione e si sono dimessi quando questa fiducia è venuta a mancare. Certo, il Governo tecnico è la dimostrazione dell’incapacità dei partiti di affrontare una situazione difficile ed è una scelta che pone in primo piano la responsabilità del Presidente della Repubblica.
E con la riforma tutto resterà nel chiuso dei partiti. Il Capo dello Stato avrà le mani legate ed avrà l’obbligo di sciogliere le Camere dopo due designazioni che non riescano ad arrivare a fine mandato. Una prospettiva un po’ in contraddizione con l’esigenza di stabilità che sarebbe alla base del progetto.
Eppure, al di là degli schemi ideologici, la storia ci insegna che i governi tecnici sono stati particolarmente utili per superare momenti difficili per gli equilibri democratici e per la dimensione economica.
Come quando negli anni di “Tangentopoli”, dopo le dimissioni di Giuliano Amato dopo meno di un anno di Governo, Oscar Luigi Scalfaro chiamò allora la personalità più prestigiosa e apprezzata anche a livello internazionale: il Governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, il primo non parlamentare ad arrivare a Palazzo Chigi. Ciampi ristabilì la fiducia nei mercati, ottenne un importante accordo con le parti sociali contro l’inflazione, avviò le privatizzazioni bancarie che portarono ossigeno alla casse dello Stato.
Nel ’94 fu la volta di Lamberto Dini, un governo che si ricorda per una delle più incisive riforme delle pensioni con il passaggio graduale dal sistema di calcolo retributivo a quello contributivo.
Nel 2001 toccò a Mario Monti, salvare il Paese dalla bancarotta finanziaria con riforme economiche, in particolare ancora una volta quella delle pensioni, che nell’arco di poche settimane fecero uscire l’economia dalle sabbie mobili.
È storia ancora più recente quella di Mario Draghi dopo le fallimentari esperienze dei governi giallo-verdi e giallo-rossi. Draghi ha ristabilito la fiducia dei mercati, ha attuato misure drastiche contro la pandemia, ha rilanciato l’economia pur con la difficile esigenza di tenere sotto controllo l’ampia maggioranza parlamentare che lo sosteneva, una maggioranza a cui non partecipava solo il partito di Giorgia Meloni.
È stata una fortuna che l’Italia abbia potuto contare su personalità di grande prestigio e autorevolezza anche al fuori della politica. Personalità che hanno sempre contributo a mantenere la democrazia negli ambiti che le sono propri, che non hanno mai avuto tentazioni autoritarie, che hanno sempre aperto la strada a un clima più sereno per gli appuntamenti elettorali.
Il futuro potrebbe presentare altri momenti di crisi. Non appare una bella scelta buttare a mare i salvagente.
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