Nello “snervante comodo della vita moderna” (copyright Alexis Carrel) è sempre più difficile incontrare persone che vivano all’altezza dei propri desideri. È invece molto più semplice accontentarsi di quel recinto esistenziale che la nostra vita piccolo borghese comunque garantisce: una certa sicurezza economica (secondo i gradi offerti dalle circostanze della vita), un discreto futuro per i figli, l’automobile dei sogni, smartphone e computer con una adeguata copertura digitale in casa e fuori, uno sport, una vacanza eccetera eccetera.
Così facendo, quasi senza accorgersene, di giorno in giorno l’umana esistenza si riduce: “Dov’è la vita che abbiamo perso vivendo?” (copyright Thomas Eliot) e la giornata scorre anestetizzata in una miriade di reazioni istintive che rimbalzano sulla superficie della pelle e di cui la sera non si ha che vago ricordo (copyright Vittorino Andreoli).
In fondo in fondo è come se pensassimo che impegnarsi con la vita intera non valga la pena più di quel tanto: un padre a cui il figlio (quindicenne!) aveva confidato di un dialogo avuto a scuola con una compagna, mi riportava questa agghiacciante affermazione della giovane: «Per me l’ideale è spegnere il desiderio». Ed è ugualmente allarmante leggere nelle interviste agli adolescenti vittime delle brutali violenze al Carcere Beccaria questa risposta ad una domanda: «Ma perché avete aspettato così tanto a denunciare? Perché tanto sappiamo già che non cambierà mai niente».
Tutto questo naturalmente sino a quando un ineluttabile fatto della realtà (come è stata l’epidemia di Covid che non a caso ci siamo affrettati di corsa a rimuovere) riaccende domande che avevamo nascosto sotto strati di consumismo: “Qual è il significato dell’esistenza?”“Perché val la pena vivere?”“Perché esistono la morte e il dolore”?
Dentro di me c’è una domanda inestirpabile di significato, di felicità totale, domanda che non mi sono autoprodotto ma che esiste di per sé. Me lo ha ricordato, tra tanti fatti recentemente capitati, la lettura della autobiografia di Gregorio Paltrinieri “Il peso dell’acqua” (Mondadori). Nuotatore e punto di riferimento per molti giovani, la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Rio ha avuto il coraggio di confessarsi apertamente: oggi le discipline sportive sono una delle poche trincee dove ancora si insegni una educazione ad un ideale e forse proprio per questo, luogo dove le domande costitutive del nostro essere uomini vengono a galla.
Paltrinieri è campione del mondo dei 1500 metri in vasca corta, campione europeo negli 800 metri in vasca lunga, nella 5 chilometri in acque libere e nella 5 chilometri a squadre. Ha conquistato la medaglia d’oro ai Giochi Olimpici di Rio del 2016 nei 1500 stile libero e due medaglie, argento e bronzo ai Giochi Olimpici di Tokyo 2020. Parliamo di atleti che spendono la propria vita in piscina sei giorni alla settimana: 500 vasche al giorno, 100 chilometri alla settimana.
Una vita di successi e di molti sacrifici. Eppure leggere nel suo libro come descrive il momento della vittoria alle Olimpiadi di Rio il 13 Agosto 2016 fa venire in mente i Diari di Cesare Pavese vincitore del Premio Strega nel 1950 (“a Roma apoteosi, e allora?”) : “E adesso? Tutto qui ? Ho appena toccato. Non è stato un tac tac. Bensì un tac seguito cinque secondi dopo da un altro tac. Perché ho dominato. Eppure qualcosa non va. Qualcosa continua a non andare. Ho appena vinto l’oro alle Olimpiadi e capisco di aver rincorso un sogno lungo quindici anni e di non sentire dentro di me praticamente nulla di quanto immaginavo… Nessuna vera gioia, nessuna felicità. Percepisco solo che ho portato a termine il lavoro, che sono riuscito ad accontentare gli altri, ma non me stesso… Mi sento come quando ci si sveglia da un incubo e solo a pensarci è assurdo. Perché ti spacchi la schiena, vivi di sacrifici, ti isoli dal mondo per inseguire un obiettivo e poi scopri che raggiungerlo è come svegliarsi da un brutto sogno. Davvero ho vinto? E allora perché ho la sensazione di aver perso?”
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