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Società

“EMIGRATI ARABI”

LUISA NEGRI - 10/05/2024

dubaiSempre più c’è da chiedersi, almeno per noi che scriviamo, che senso abbia usare la voce -la penna- nel silenzio assordante che circonda ormai le parole. O se non sia meglio abbandonarla nell’incavo del tavolo su cui s’è lavorato per anni.

Ha ancora spazio e tempo per ascoltarci l’attenzione di un mondo che rimanda ogni giorno le più terribili notizie e immagini, tra i gemiti dei sofferenti?

I ragazzi del carcere Beccaria torturati, anziché aiutati e sostenuti nel già di per sé doloroso percorso di recupero, il giovane italiano di Miami ‘incaprettato’ come un delinquente dalla polizia, soprattutto le guerre senza fine, i pianti e le invocazioni inutili dei bambini e delle donne: tutto attorno sa di odio, mentre il mondo brucia e va in pezzi.

Anche le nostre speranze stanno per finire. Proprio perché appare forse inutile sottolineare, raccontare, ricordare. Inutile tutto. La voce si affievolisce, vacilla come la luce di una candela insidiata dai venti.

Ci sono poi notizie, apparentemente non inquietanti. Che però, a ben guardare, sono la conferma di quel silenzio assordante che forse già ci travolge.

Una colpisce: i nostri giovani medici, già virati anni fa su Inghilterra o Svizzera, vanno ora a lavorare negli Emirati Arabi. Perché li accoglierebbe lì un mondo più moderno, più effervescente, sicuramente più ricco. Che certo lo è: di danaro.

I medici qui ci mancano e avremmo bisogno di averne molti di più. Eppure chi è cresciuto qui, e ha studiato sempre qui, dove è nato, lascia e se ne va.

Ci abbandonano. Noi vecchi restiamo qui. Nel vecchio Mondo. Là invece è l’America -una nuova America- che aspetta gli intrepidi.

Ma staranno poi meglio le giovani famiglie di quei medici, cresceranno meglio i loro figli? E davvero non ce la si può più fare a vivere qui? Davvero là tutto va bene ed è più moderno, efficiente, brillante. Davvero là ti ascoltano di più ?

È finito il romanticismo di due cuori, una capanna e uno stipendio modesto, come nei film del neorealismo. Finita l’idea che un medico dovrebbe ‘sentire’ che il suo, più che un lavoro, è una missione.

E che se pensi di curare il corpo e il cuore di una persona non puoi mettere in cima ai desiderata- perché questo forse è se vai proprio là- uno stipendio ben più alto.

Ho avuto antenati medici in famiglia. Uno di loro, ci avevano raccontato i discendenti, era stato rapito dalla banda del Passator cortese nella campagna romagnola, mentre andava a visitare i suoi malati a dorso di cavallo. Lo avevano catturato, bendato e rilasciato dopo avergli fatto estrarre una pallottola dal corpo del Passatore, operando in una stanza camuffata da lenzuola bianche. Non aveva voluto nulla, naturalmente. A casa s’era ritrovato in tasca due scudi in oro.

Altri medici, sempre in famiglia, avevano lavorato a Bologna con incarichi di alta responsabilità, ma nessuno lasciò ricche sostanze ai posteri.

Ho sempre pensato a loro come a quell’avo raccontato da Renato Fucini, anche lui issato a cavallo e pronto per andare a visitare i suoi malati nel vento della tormenta e nella neve.

Nel consegnare un gruzzolo di soldi al giovane- e un po’ prodigo- figlio, si raccomandava: “Prima di spenderli, ricordati la fatica di tuo padre per guadagnarli”.

Altri tempi per medici e scrittori.

Prima che si profilasse per qualcuno, già allora, l’idea del Nuovo Mondo.

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