“A rubar poco si va in galera, a rubar tanto si fa carriera”. Pensiamo che sia un motto popolare non così in là nel tempo. Invece lo è. Appartiene a Catone, dileggiato dalle generazioni (quante generazioni) a lui successive perché tenace fustigatore d’ogni devianza di costume, pur se minima. Catone il Censore, era detto dai romani. Non a caso. Fu nominato Censore, essendo questa una carica dello Stato. Sentivano, i governanti d’allora, la necessità/il dovere d’istituzionalizzare la lotta alla corruzione.
C’era dunque, eccome se c’era, la corruzione anche a quel tempo (parliamo di 200-150 anni avanti Cristo). Catone e gli strumenti normativi di cui dispose non riuscirono a sconfiggerla. La corruzione si perpetuò, i tentativi d’arginarla l’accompagnarono. Con qualche vittoria momentanea, con l’endemica sconfitta nel lungo andare. Un secolo e mezzo dopo la morte di Marco Porcio, un’altra prestigiosa figura della romanità ne seguì il solco rigorista. Si chiamava Seneca. Ammonì: “I delitti piccoli sono puniti, quelli grandi portati a trionfo”. Non sbagliando diagnosi, come la storia testimonia: da un’epoca all’altra, da uno spregiudicato all’altro, da un sopruso all’altro. Lo sappiamo bene anche noi: il succedersi degli scandali è continuo, non bastano inchieste, processi, condanne a fermarlo. Chiuso un caso là, se ne apre uno qua. E naturalmente vien conosciuto solo il poco che affiora, mica il molto rimasto sotto la superficie dell’acqua torbida.
Del resto non un magistrato, ma il poeta Ugo Foscolo osservò con occhio realistico e disincantato: “In tutti i paesi ho veduto gli uomini sempre di tre sorte: i pochi che comandano; l’universalità che serve; e i molti che brigano”. Moltissimi, come c’insegnano per esempio le tangentopoli dell’epoca contemporanea, una peggiore della precedente perché dimostra che nulla s’è imparato dai trascorsi. Perciò a leggere le Ultime lettere di Jacopo Ortis, inizio dell’Ottocento, sembra di sfogliare l’agenda della quotidianità: cattivi esempi, offese alla morale, oltraggi agli onesti, vergogna senza pudore. Nascosta fin ch’è possibile, poi affrontata con l’arma dell’impunità. Grazie a consumati collegi difensivi, al profluvio di cavilli legislativi, all’eternismo di processi spesso finiti sul binario morto della prescrizione.
Certo è esagerato dire che viviamo in una società amorale di massa. Però se il malcostume alligna, e politica/imprenditoria/affarismi se ne profittano; e il disprezzo delle regole porta allo scherno del senso di Stato; e la burbanza dei prevaricatori s’incunea nelle pieghe fragili del tessuto comunitario; se tutto questo avviene, non c’è da meravigliarsi quando capita di scoprire la polvere sotto il tappeto ipocrita dove insistiamo. È quello coi disegni stilizzati dell’indifferenza e dell’egoismo. Così diffusi. Così ammirati. Così replicati. In grande, purtroppo: vere e proprie gigantografie.
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