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Divagando

CENA ALLEGRA NEL TETRO ŠPILBERK

AMBROGIO VAGHI - 15/06/2012

Il castello di Špilberk

Una cena piacevole e allegra nel tetro Castello dello Špilberk, luogo di pena e di dolore di tanti patrioti oppressi dall’Impero Austro-Ungarico. Una sorpresa grande per quello sparuto gruppo di varesini partito alla scoperta dell’allora Cecoslovacchia, ospite di persone conosciute grazie agli avvenimenti sportivi. Una dimostrazione di quanto possa lo sport per creare amicizie singole, pace e fratellanza tra popoli. Non unica la sorpresa di quel carcere, poi aggiuntasi a tante altre a dimostrazione di quanto fosse ampia la nostra ignoranza su fatti storici e su costumi di popoli che vivevano non in lontani continenti ma nel centro della nostra vecchia Europa.

Tutto era nato dal basket grazie alla Pallacanestro Varese che con la grande Ignis all’apice dei valori europei incontrava in Coppa dei Campioni le squadre dell’Est, cecoslovacche, russe, ungheresi, jugoslave. Tra i cechi della Spartak Brno si ebbe modo di intrecciare subito ottimi rapporti. Soprattutto col loro massimo dirigente l’ingegner Jiri Novak, con Jaroslav Houba, un giovane giornalista di un quotidiano locale, e con altri accompagnatori. Novak in possesso di un buon francese, di un po’ di inglese e di una carica di umana simpatia era veramente l’artefice di questa operazione “fratellanza”. A Varese era entrato in ottimi rapporti con Edoardo Bulgheroni e con il figlio Toto, allora giocatore. In Italia aveva contatti con tutto il mondo del basket, tanto che la Spartak era invitata d’onore nei vari tornei estivi di Roseto degli Abruzzi e di Scauri. Da questi amici cechi partì dunque “l’invitazione”, documento allora necessario per ottenere dal Consolato il visto d’ingresso in Cecoslovacchia. Del resto in quegli anni da “guerra fredda” gli scambi tra Est ed Ovest erano quasi esclusivamente a livello sportivo.

 Successivamente i nostri viaggi verso l’Est furono diversi, ma certamente fu il primo a suscitare maggiori emozioni e a lasciare tracce più durature nella nostra memoria. Eccone il racconto.

 Si partì in macchina da Varese non spaventati dalla lunghezza del percorso. Con neppure un migliaio di chilometri di strada si sarebbe raggiunto il cuore dell’allora Repubblica Cecoslovacca. Meno che andare da Milano a Reggio Calabria. I primi guai ad Innsbruck. Giorni prima tutta la regione bagnata dal Danubio e dai suoi affluenti era stata teatro di grandi inondazioni. Danni enormi anche a strade e ponti. Quindi, deviazioni a non finire. Si raggiunse la bella Salisburgo in pieno Festival Mozartiano. Ci dovemmo però accontentare di intravvedere l’enorme platea all’aperto. Niente concerto serale per noi. Biglietti esauriti. Si raggiunse poi Vienna attraverso la vecchia strada statale perché l’ultimo tratto dell’autostrada era ancora in costruzione. Anche la capitale austriaca ci apparve gravemente colpita dall’inondazione. Altro che Danubio blu. Il grande fiume nella parte cittadina più caratteristica era talmente esondato da fare con le sue acque un unico corso con quelle del canale parallelo. Notevoli i danni. Si andò verso nord e dopo neppure una sessantina di chilometri in strade diritte a saliscendi, le classiche “montagne russe”, eccoci alla frontiera. Ci salutarono guardie e doganieri austriaci che ci indirizzarono strani sguardi di compatimento. Eravamo alla cosiddetta “cortina di ferro”, quella che divise nella Guerra fredda oriente ed occidente. L’ingresso in Cecoslovacchia non era per niente accattivante. Ci inoltrammo in una terra di nessuno, priva di alberi e di arbusti. Alla fine di questa spianata desertica, torrette di guardia. Dall’alto soldati ci osservavano con binocoli e con mitragliatrici forse puntate su di noi. Negli uffici presentammo i nostri documenti di ingresso, integrammo l’assicurazione automobilistica, cambiammo in Korone, con la nostra moneta, l’equivalente obbligatorio per i giorni di permanenza. Alcune bionde doganiere occhiute e per niente simpatiche erano decise a rovesciare come guanti gli interni delle nostre auto. Era il valico di Mikulov. Dopo poche decine di chilometri fummo finalmente a Brno. Dovevamo contattare i nostri amici dalla prima cabina telefonica. Gìà, ma ci mancavano le monetine, abbiamo solo carta moneta. Ci venne in aiuto una donna di mezza età alla quale ci rivolgemmo più a gesti che a parole. Conosceva il francese (lingua assai insegnata colà nelle scuole prima della guerra ), ci fornì le monete, anzi ce le offrì rifiutando lo scambio. Aveva lasciato sul marciapiede un cesto con verdure e tante ciliege appena colte che avevano in noi suscitato tanta meraviglia. Sicuramente furono i nostri sguardi ad indurre quella donna ad offrircele e a mangiarle con lei. Ci credeva francesi, ma ci scoprì italiani non certo invasori nemici del Patto di Varsavia. Era bastato l’atto di gentilezza di una persona sconosciuta, la prima incontrata, per commuoverci e per farci dimenticare l’affronto di chi, convinto di preservare la pace, era pronto a fare la guerra puntandoci quelle mitragliatrici.

Festoso e commovente l’incontro con gli amici di Brno che ovviamente si diedero tanto da fare per farci conoscere la loro città e le zone vicine. Si partì dalla palestra, assai modesta per la verità, dove si giocavano le partite di basket. La stessa che ospitava le nostre squadre di Varese. Numerose furono le visite ad altri impianti. Il vecchio ed il nuovo stadio calcistico in costruzione. La pista da sempre teatro, anche negli anni più bui della guerra fredda, di un importante gran premio motociclistico. I numerosi campi da tennis sparsi all’interno di quartieri di case popolari. E poi incontri coi dirigenti della grande fabbrica sponsor della squadra Spartak, il fiore all’occhiello del basket ceco. Non poteva mancare la visita ad un paio dei tanti castelli dimora dei vari principi di Wallenstein , ramo cadetto, pare, della casata imperiale degli Asburgo.

Sorprese a non finire anche dal lato della lingua con qualche vocabolo imparato ogni giorno. Trattandosi di zone collinari le strade erano assai tortuose. Tanto che guidando mi scappava spesso di lamentarmi a voce alta: ” Un’altra curva, ma qui le curve non finiscono mai!”. E ogni volta ne seguiva una strana ilarità ed occhiate di meraviglia tra i cechi che stavano con noi. Interrogati indugiarono un poco, poi mi dissero che si trattava di una brutta parola della loro lingua che non era il caso di rivelarmi. Curioso, consultai poi il vocabolario e trovai Kurva= donna di malaffare. Stranezze degli idiomi.

Un giorno ci dissero, oggi si va a …( e chi si ricorda quello strano nome in lingua ceca) dove Napoleone vinse la battaglia. Già ma quale battaglia? Il grande còrso non ne fece poche. Noi giungemmo in quella località assolutamente digiuni di storia e anche un pochino contriti per la nostra ignoranza. Dalla lettura di qualche lapide mi parve di capire che la battaglia fu quella del luglio 1809 quando Napoleone ed i francesi, dopo aver rioccupato Vienna sconfissero gli eserciti della quinta coalizione. Quindi doveva trattarsi di Wagram citata col nome tedesco dai nostri libri di storia come località a nord di Vienna. Una grande spianata ora coperta da fertili campi di segale ed orzo sormontata da una collinetta dove dalla casa a torre,munita di uno strano “orecchio di Dionisio” il comando francese diresse la sanguinosa battaglia.

 Ma le sorprese moldave (Brno è considerata la capitale della regione Moldava ) non erano certo finite. Oggi pomeriggio si salirà allo Spilberk. Non un nome sconosciuto ma mai avremmo immaginato di trovare lì, a Brno, quel famigerato carcere austriaco di Brun dove venivano rinchiusi tutti gli oppositori degli Asburgo. Il Castello si trova al culmine di una boscosa collina e sovrasta praticamente il vecchio centro della città. La visita della parte adibita a carcere suscitò in ognuno di noi emozioni profonde. Vedere le celle dove erano stati detenuti i patrioti dei tanti popoli oppressi dall’impero Austro-Ungarico, vedere la cella del dolore e della sofferenza dei nostri Silvio Pellico e Pietro Maroncelli fu momento anche di grande angoscia. La lapide ci apriva alle mente le pagine de “Le mie prigioni” ed il sacrificio di tanti patrioti ( tra i quali molti i boemi ) che avevano lottato per la indipendenza dei loro Paesi. Al di là dell’ala carcere- museo, oltre il grande cortile, era stato aperto un ristorante. La cosa ci parve un poco dissacrante, un mancato rispetto della memoria. Ma gli amici ci spiegarono che la municipalità di Brno aveva deciso di cancellare per sempre il ricordo del Castello come carcere e luogo di sofferenze. Infatti sempre qui pure in anni recenti anche gli occupanti i nazisti avevano recluso e torturato gli avversari politici. La città aveva voluto che il luogo fosse vissuto con altro spirito, come uno spazio per mostre, convegni, anche feste di bambini nel grande cortile. Fummo dunque ospiti del vicino ristorante. La cena ci venne servita con ottimi piatti locali, innaffiati non dalla classica birra ma da tante caraffe di un fresco vino bianco prodotto nelle vicine colline Moldave. Forse fu questo nettare a produrre tanta allegria… internazionale, tanto che si aggiunsero a noi parecchi turisti austriaci, solitamente silenziosi ai pasti come si diceva un tempo fossero i nostri frati. Una piacevole manifestazione di amicizia e fratellanza tra popoli che ci fece ricredere sulle riserve prima suscitate in noi dalla nuova destinazione del tetro Castello.

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