Non ho mai partecipato ad una manifestazione. Forse, mi dicevo, soffro di una forma di snobismo che mi impedisce di confondermi con la massa. Può darsi, ma in realtà la risposta me l’hanno data due articoli che sono stati pubblicati sul Corriere la scorsa settimana.
Ferruccio De Bortoli, nel suo editoriale a commento della manifestazione del 25 Aprile – Ottant’anni non sono bastati -, affermava che il tempo di una generazione non è stato sufficiente a far nascere una “memoria comune”, e “che la consapevolezza di un sentimento comune sulle autentiche radici della nostra Repubblica, che è per fortuna antifascista, non vuol dire che tutti debbano pensarla allo stesso modo.” Ciò che mi impedisce di partecipare a questo tipo di manifestazioni è, appunto, l’intolleranza, il fatto che l’evento per il quale si manifesta venga sempre preso a pretesto per esprimere contrapposizioni ideologiche e politiche.
Non amo lo scontro, le certezze assolute, la convinzione di essere nel giusto; mi piace il confronto, la discussione pacata e argomentata, l’ascolto delle idee diverse che possono far insorgere il dubbio. Le manifestazioni, da che mi ricordo, sono sempre state contro. E qui mi fa riflettere l’altro articolo a cui facevo riferimento, Nel paese della rabbia trionfa il prefisso anti- di Paolo Di Stefano.
Partendo da un’analisi linguistica sull’imperversare del prefisso anti, con e senza trattino (anti-europeisti, anti-Schlein, anti-Salvini, anti-Israele, antisemiti, antisionisti, anti-palestinesi, anti-covid, anti-vaccino ecc.) riflette sul fatto che “non sappiamo concepire la vita se non contro. Se fossimo più positivi, meno antipatici e più empatici, il prefisso più diffuso sarebbe filo- (o pro-).”
Invece sembra che si possa trovare un’identità solo nel definirsi contro: contro un’ideologia, contro una religione, contro un partito.
È uscito da poco Il carteggio ritrovato (1957/1978), un libro che raccoglie la corrispondenza, in gran parte inedita, tra Aldo Moro e Pietro Nenni. Ciò che mi ha colpito non è tanto il fatto che con la loro collaborazione siano riusciti ad ottenere importanti risultati per il Paese, ma che, per raggiungere tali risultati, abbiano deciso di collaborare – pur essendo diversi per estrazione politica e ideologica e per carattere – nel rispetto reciproco, fino a costruire un’amicizia, senza che nessuno dei due perdesse la propria identità.
Un sogno nella politica di oggi.
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