É in primavera, se si hanno ricordi di lei, dei suoi capelli argentei e del suo filo di perle, della sua voce al telefono, sottile e determinata, ma soprattutto delle sue pagine, che ti prende la nostalgia di quella presenza così riservata. Eppure sempre pronta a farsi sentire, se necessario.
Parliamo di Liala, Amalia Liana, nata il 31 marzo 1897 a Carate Brianza e morta in Varese il 15 aprile 1995, figlia di Petronilla Picci e di Tomaso Negretti Odescalchi, un farmacista dai natali aristocratici. Che vantava persino un papa tra gli avi, oltre che il pittore Giacomo Negretti, figlio di Jacopo Palma il Vecchio e padre di Violante, celebre modella di Tiziano Vecellio.
Capace di farsi leggere nel mondo intero, autrice di un’ottantina e più di romanzi, Liala, cosi battezzata da D’annunzio, li aveva scritti partendo dal ricordo del suo grande amore, morto tragicamente nelle acque del lago di Varese. Era il settembre 1926, e Vittorio Centurione Scotto, un asso dei cieli, s’inabissava con l’aereo durante le prove per la competizione della coppa Schneider.
Con lui finivano le speranze di una vita diversa. Ma si sarebbe iniziata per Liala nel 1931 con Signorsì l’avventura di un’esistenza destinata a guardare alla scrittura come a una missione. Non era solo la necessità di mantenere la famiglia, le due figlie Primavera e Serenella- avute dal marito Pompeo Cambiasi Jr, ufficiale della Regia Marina- e una collaboratrice domestica, Tarsilla detta Tilla, dedita alle loro cure, che la portava a scrivere, nei libri e sui giornali. Ma era anche il senso del dovere a imporle di non sottrarsi alle responsabilità di far sentire la sua voce. Certo una voce importante, sul piano culturale e sociale. Soprattutto una voce per tutti.
Se ne stava la Signora ‘chiusa’ alla Cucciola, il luminoso villino bianco in via Montello, circondato da un giardino ricco di fiori e di verde. Qualcuno la raccontava come lontana, quasi inavvicinabile. Eppure Primavera e Tarsilla si facevano in quattro per ricevere al cancello di casa le missive delle lettrici, o gli omaggi, i ricami e i piccoli oggetti usciti da mani laboriose per Liala. Era per ringraziarla della consolazione avuta dalla lettura di pagine in cui le trame d’amore, offerte con eleganza e sapienza di tratti e contenuti, facevano sognare tutti, e addirittura portavano conforto ai malati. Era questo il più grande dono che ritornava a quella squadra di donne tutte intente a sostenere la capitana. Spesso impegnata anche su precise o bizzarre richieste della stampa: come dare consigli ai reali nel sostenere il gran peso delle loro teste coronate: persino alla corte inglese, spesso minacciata, allora come oggi, dagli strappi dei suoi membri ribelli.
O fornire consigli ai distratti amministratori civici. Convinta sostenitrice della necessità di ripristinare le funicolari varesine, Liala rimpiangeva quei momenti gloriosi, di una Varese dorata, senza però mancare del sano realismo che la teneva sempre coi piedi per terra.
Bastonata a volte dalle colleghe che usavano per lavoro la penna, subiva lo snobismo di una certa cultura con la puzza al naso. Camilla Cederna era tra le avversarie più impegnate nel bombardarla con qualunquistiche, linguacciute bordate, che colpivano, dal pur autorevole Epresso – più che le cannonate di Urban in gloriose pagine risorgimentali- non solo lei ma la ‘provinciale’ città di Varese nell’insieme. Un vezzo incancrenito che persiste tra alteri residenti dei grandi capoluoghi contro i più ‘semplici’ cugini dei centri minori. Utile però a rafforzare la parola e la visibilità, non chiara a tutti, di questi ultimi.
Nessuno più mette in dubbio oggi il ruolo avuto anche dalla scrittura di Liala nella nostra letteratura. Ben sottolineato dal critico Oreste del Buono, alla morte di lei. Una narrazione classica e raffinata, sostenuta da una fertile vena, vivace e ricca di particolari descrittivi, abituata a guardare al reale e al bello insieme, a soffermarsi soprattutto su temi eterni e universali, come l’amore e la carità. Ideali che oggi vediamo sempre più lontani, persi nell’oceano putrefatto di odio, dove tutto si nega.
Noi vogliamo conservarne l’immagine cercandola nel ricordo del suo più bel libro: Diario vagabondo.
La piccola Liala- detta Ghinghi dai nonni- si trova con loro sul lago di Como. Sfuggita al controllo della fedele Annetta esce di casa e corre verso la darsena. Perché? Annetta la va cercare ma la lascia lì, coi piedi nell’acqua e gli occhi pensosi. Ghinghi Sembra ancora una bambina, ma ha ormai quattordici anni. Le ha chiesto: “Lasciami sola”.
“Oggi la ricordo quell’ora mia, sola. E vorrei ritrovarla almeno una volta…stare ancora seduta sul gradino della scaletta, ascoltare la voce del silenzio, perché la voce del silenzio è la più bella, la più cara, la più completa. Dondolare di barca, mormorare di acqua…Ore mie care. Non avvenne nulla di eccezionale allora: che può avvenire a una ragazzina che sta ferma su un gradino vicino all’acqua? Nulla. Ma quell’ora, quell’ora tranquilla, piena di ombra e di odore di lago, non è arrivata più”.
Ghinghi era diventata Liala, ma ancora non lo sapeva.
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