Una mattina qualunque, in una via centrale di Varese. La giornata è bella, il cielo terso, la luce chiara spiove sulla facciata di una delle chiese più frequentate e amate della città, là dove corre lo sguardo in alto alla breve salita. Un sentore di gelsomino circola per l’aria, andrà forse a deliziare anche i putti che sorridono dalle balaustre affrescate sulle volte celesti.
Ci si riconcilia con se stessi, scatta la voglia di inoltrarsi in una nuova giornata di questa primavera che ci ha molto turbati, più che per gli umori minacciosi del meteo, per i tragici eventi della cronaca quotidiana.
Il terremoto, prima di tutto, spietato evento naturale al quale forse non c’è rimedio. O forse sì, se almeno si fosse attenti a prevenire quello che si potrebbe evitare. Se solo qualcuno usasse più attenzione e rigore, più onestà, avendo la responsabilità di vite altrui che ricadono nella propria sfera professionale, o amministrativa, o politica.
E poi la crudeltà senza attenuanti, l’inaccettabile pretesto di chi ha deciso di far scattare il timer delle nere bombole di Brindisi, di annullare la vita terrena di Melissa e il sorriso di una scuola e delle sue studentesse, ferite per sempre nel corpo e nell’anima.
Ma anche la tragica morte di tanti innocenti siriani, dei bambini colpiti dalle raffiche degli elicotteri ordinate e comandate dai sordi, e sordidi, macellai del regime. Abbiamo visto i loro piccoli corpi avvolti nelle lenzuola, allineati in estenuanti file di assurdi sudari presso i quali non era concesso neppure il pianto della famiglia, già smembrata, nel suo cuore di spirito e carne, dal morso della repressione politica.
Eppure, questa sembra una nuova mattina, per riflettere, nonostante tutto, che ogni giorno è un giorno nuovo. Se non fosse che un improvviso scambio di battute, di voci alterate, di epiteti pesanti – e sono purtroppo voci di donne – s’allarga intorno e coinvolge suo malgrado chi sta passando per strada. Appena il tempo di afferrare un’altra battuta e uno sguardo di uomo umiliato, ma risoluto: “Mio figlio non parla, è autistico, cerchi di capire”.
Ci si aspetterebbe un “non avevo capito, mi scuso io” e invece parte dalle due donne una nuova raffica di insulti, uno sparo a zero su un innocente – e sul padre di lui – che ha cercato di dialogare, di comunicare nel solo linguaggio che conosce. Qualcuno s’intromette sdegnato a difesa dell’uomo e del suo ragazzo. Viene a sua volta accusato di zelo, di demagogia, di non capire niente di educazione, di farsi paladino di una società troppo accomodante, senza regole.
È vero, care signore dall’aria finta-per bene ma dall’insulto facile, a volta subentra proprio la stanchezza del pensare che non ci sono più regole, che “ormai va tutto così”: perché nella Babele dei nostri cuori e della parola non cerchiamo più di capirci e di comunicare. Tanto poco lo sappiamo fare che non lasciamo margine al tentativo di sentire quel che vorrebbe dirci un autistico, che, lui sì, non smette di cercare ogni possibile contatto con chi incontra.
La piccola città con la sua chiesa ti pare all’improvviso ancora più piccola, la luce chiara si abbuia.
La speranza s’allontana. Forse corre a rifugiarsi là in alto, dietro quella facciata dove cade lo sguardo.
Per non perderla definitivamente, quell’ultima speranza, bisogna avere la determinazione di varcare insieme quella porta, correre a inginocchiarsi, e nel silenzio vero – almeno lì – chiedere perdono.
È una delle ultime parole vere che ci rimangono: perdono.
Perdono per chi non sa ascoltare la speciale parola di un bambino autistico.
“Non ho paura di questo irrompere di parole di cui sono l’unica testimone. L’unico orecchio” aveva già spiegato nel 1999 Francoise Lefevre, scrittrice e mamma di un bambino autistico, nel suo “Piccolo principe cannibale”.
E perdono in generale, per la sordità che ci coinvolge tutti e ci allontana dall’amore e spinge al male.
Perché noi tutti siamo colpevoli, nella quotidiana crudeltà, di non sapere, o di non volere più sentire né comunicare.
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