Arrivati ad Angera e preso possesso del bel prato che accompagna la riva del lago, nel verde che sta rinvigorendosi in questa discontinua primavera, a sinistra si dilunga l’acqua del Verbano, a destra si alza e brilla la veramente splendida mole della Rocca Borromeo, oggi meta rinomata per la sua storia e per le varie collezioni d’arte.
Ma, ci si chiede, di fronte non esiste altrettanto segno di potere, di dominio, di sorveglianza del bacino inferiore del lago Maggiore?
Pare ragionevole che in questo punto del lago, due dovessero essere i prepotenti segni dell’esistenza di una forma di controllo e di sorveglianza delle acque prima che il lago defluisse nel Ticino, che lo aveva generato all’altezza di Locarno e della piana di Magadino.
In effetti il lago è una grande e comoda via di comunicazione da sponda a sponda, e dall’alto al basso. Paolo Morigia, cantandone la nobiltà nel Seicento (1603), ci consegna una visione del lago come centro di mercati, un via vai di traffici, non ultimo quello stupefacente dei marmi di Candoglia di passaggio verso il Ticino e per esso fino a piazza Fontana, a Milano, per scaricarli ad uso della fabbrica del Duomo (AUF).
Per strategica avvedutezza i nostri antichi dotarono la riva piemontese del Lago, proprio dirimpetto ad Angera, di un castello o rocca ad Arona, tra le cui mura sarebbe nato addirittura Carlo Borromeo (1538).
Oggi si trovano le rovine di quel sito, mentre ad Angera i Borromeo, divenuti padroni di Angera, della rocca e della sua pieve, con Vitaliano Borromeo (1449), conservarono la luminosa mole eretta con la pietra cavata dalle viscere del promontorio.
Ma la scelta avveduta di quel sito, per il controllo delle acque e della via di transito dalla pieve di Brebbia, rimontava già ai tempi dei Longobardi, ad opera di quel Comitato del Seprio che avevano costituito per governare le terre dalle porte di Bellinzona fino al milanese.
In auge il nome di Angera sarebbe salito ai tempi del basso medioevo, quando cruente lotte si intrecciavano tra i Torriani, o Della Torre, ed i Visconti, a capo dei quali era nientemeno che il vescovo Ottone, uomo di chiesa ma altrettanto uomo di armi. La lotta per il potere su Milano vide la vittoria del Visconti che sconfisse Napoleone (o Napo) Torriani in quel di Desio, nel 1277.
Per fare memoria di quelle gesta, e per affermare il rango della propria gente, Matteo Visconti, rettore del Comune di Milano, che nel 1314 s’impadronì della Rocca togliendola per sempre ai Torriani, fece affrescare le pareti della importante Sala di Giustizia. Sono opere risalenti al primo Trecento che, sulla scorta del poema di Stefanardo da Vimercate, raccontano le gesta di Ottone Visconti.
Si faccia caso che non siamo in una chiesa o in un Santuario, ma in un luogo dove nessuno avrebbe voluto trovarsi, per non essere sottoposto a giudizio del Signore ed alla conseguente pena. Oggi noi lo visitiamo liberamente, ma l’osservazione deve valere in quanto queste storie venivano “cantate” per la gloria di uno della famiglia e non per quella della Madonna o del Cristo. La ulteriore connotazione in chiave privata e profana si rileva considerando che nella decorazione delle pareti, nelle lunette sovrastanti gli episodi ricorrenti nella storia viscontea, appaiono dipinti i pianeti ciascuno dei quali congiunto a quei segni zodiacali in cui, secondo le credenze astrologiche medioevali “ esso esercitava più fortemente , come in propria casa, il suo influsso.”(v. Pietro Toesca, La pittura e la miniatura nella Lombardia, Torino-Einaudi 1966, p.82).
E’ una specie di anticipazione della concezione umanistica, che avrebbe magnificato il ruolo di protagonista dell’uomo, che in questo caso è vestito di vesti confessionali, di spregiudicato promotore della propria storia, ma è pur sempre una affermazione del principio che ciascuno è fabbro della propria fortuna.
Buona visita, con la coscienza a posto.
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