Grazie alle Giornate di primavera del FAI facciamo una curiosa scoperta anagrafico-letteraria tra canali, barene, dossi e paludi acquitrinose nel parco regionale del delta del Po a nord di Ravenna. Siamo a Sant’Alberto, ai margini di una vasta distesa di canneti e di acqua salmastra a contatto con il mare Adriatico dove nidificano aironi bianchi, rossi e cinerini, svassi e falchi di palude. È il paradiso di chi ama il birdwatching. Un artigianale e romantico traghetto sul fiume Reno collega il paese allo scenografico argine sud delle valli di Comacchio, un paesaggio terracqueo disseminato di capanni per la pesca affacciati su canali e bacini distesi tra le pinete dove corre la memoria di gesta romane e bizantine, di antiche pievi ferraresi e veneziane, di vicende garibaldine e partigiane.
In questo borgo di pescatori e cacciatori da generazioni, di antiche abitazioni addossate alla via principale intitolata a Olindo Guerrini – poeta vernacolare e gloria locale – sorge una villa padronale e oggi casa-museo della famiglia Pascoli, originaria di Ravenna, prima che il ramo a cui apparteneva l’autore dell’inno alla Pace! si trasferisse a San Mauro nel Cesenate. A Sant’Alberto abitava l’amato cugino Antonio, per tutti Tugnén, di cui Giovanni fu spesso ospite e in contatto epistolare. Un casato con tanto di stemma (unicorno su campo rosso sormontato da tre gigli) che risale al XV secolo con l’antenato Conestabile che comandava milizie ravennati. Fra i discendenti un altro poeta, Gabriello Pascoli, che visse a Ferrara alla corte estense ed è citato da Torquato Tasso.
E poi cancellieri, agricoltori e parsimoniosi amministratori pubblici o ministri, come si diceva all’epoca. Così che il principe Alessandro Torlonia quando secoli più tardi ebbe bisogno di un amministratore per la tenuta di San Mauro, lo andò a cercare proprio a Sant’Alberto. Costui, Giovanni, omonimo dell’autore di Temporale e X agosto, fu presto raggiunto dal nipote Ruggero, lo sventurato padre del poeta che resterà vittima di un mai chiarito omicidio, ucciso a fucilate da due sicari nel 1867 per conto di un mandante spinto forse da motivi economici. Un episodio che segnò la vita del dodicenne letterato che al padre dedicò nel 1903 la Cavalla storna, la sua lirica forse più famosa contenuta nei Canti di Castelvecchio.
La villa di Sant’Alberto, con i soffitti affrescati da grottesche settecentesche, conserva il fitto carteggio che Giovanni intrattenne con il cugino Tugnén e dall’archivio delle sue opere vale la pena ricordare oggi, dati i tempi che corrono, l’opuscolo che uscì nel 1900 dai torchi dell’editore Remo Sandron contenente quattro testi. Uno di essi, l’inno alla Pace! fu scritto per i morti della strage di Milano del 7-8 maggio 1898 quando il generale Bava Baccaris fece sparare sulla folla che protestava per l’aumento del prezzo del pane provocando la morte di decine di persone. Una carneficina per cui l’ufficiale fu indegnamente decorato dal re Umberto I di Savoia per “il servizio reso alle istituzioni e alla civiltà”.
L’inno è un’esortazione alla concordia che il poeta celebre per la poetica del fanciullino e uno dei massimi rappresentanti del decadentismo letterario italiano, rivolge al genere umano. L’uomo, spinto da un’innata bestialità non ancora superata nel processo evolutivo, sparge colpevolmente il sangue dei propri simili. Giovanni Pascoli invita al perdono e all’oblio contro la follia della guerra e il comune destino di annientamento. Eccone un breve brano: “Becchini che scavano… È rossa/la luce di fiaccole ch’erra/ne l’ombra; e ben grande è la fossa/che s’apre annerando sotterra;/ben molti son là su le bare/là muti tra il rauco anelare/che aspettano, in fila… Ribelli?”. Un tema tragicamente attuale. Ma i politici, i ministri, i dittatori leggono ogni tanto i poeti?
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