Di elezioni europee si sta parlando in questo periodo quasi solo in termini di test politico nazionale, di tattiche, di liste e capilista. È in parte inevitabile ma sarebbe devastante se si continuasse così, eppure l’andazzo sembra questo.
Bisogna invece utilizzare questo tempo per discutere dei grandi problemi dell’UE poiché la prossima legislatura potrebbe essere quella del rilancio del sogno europeista oppure del suo definitivo tramonto. E dobbiamo tutti sforzarci di vivere questi problemi come fatti importantissimi della nostra democrazia di cui si parli anche a tavola, nei luoghi di lavoro e con gli amici.
La riflessione di oggi è su tre temi enormi. Quello della Difesa Comune e quelli, connessi, del suo finanziamento e del diritto di veto dei singoli Stati.
L’Europa sta vivendo le due guerre che guardiamo con terrore sotto la fortissima e storica influenza americana. Anche chi si sente soddisfatto di questo ombrello rassicurante deve però ammettere che qualche profondo cambiamento è necessario affinché l’UE sia protagonista e non pedina nella grande geopolitica in parziale transizione.
La Difesa europea non esiste in senso proprio. Il quadro che gli esperti tracciano è desolante e drammatico. Abbiamo 27 sistemi militari frammentati che in totale spendono molto senza risultati apprezzabili: è necessario coordinarli e potenziarli. Affermare che l’esercito europeo non serve perché l’Europa deve perseguire una politica di pace non ha alcun senso, anzi è un controsenso e significa non contare nulla.
Tutto ciò implica il nodo del finanziamento. Su questo punto è stato chiarissimo Paolo Gentiloni, commissario europeo all’Economia: «Se vogliamo rafforzare la nostra difesa dobbiamo finanziarla tutti insieme emettendo debito pubblico comune come si è fatto con successo per la pandemia».
La questione del finanziamento ci porta subito al diritto di veto degli Stati. Basta il no di uno solo dei 27 Paesi per bloccare tutto. Non si può continuare in questo modo. Eppure una via d’uscita esisterebbe come la stesa Ursula von der Leyen ha indicato: «Le cooperazioni rafforzate previste dal Trattato dell’Unione Europea».
È il percorso già seguito per l’euro: se almeno nove Stati concordano un programma in un ambito specifico possono marciare da soli in attesa che altri Paesi si uniscano. Per dare il senso della progressione determinata da questo modus operandi, basti ricordare che nel 1999, l’anno d’introduzione dell’euro, solo 11 su 16 Stati membri aderirono mentre oggi è la moneta di 21 dei 27 Paesi dell’Unione.
Il Parlamento Europeo, dove si esprime la volontà dei popoli, è decisivo per la formazione e l’indirizzo politico della Commissione (il governo europeo) e può fare molto per spingere i leader dei Stati membri su quelle strade.
Serve per questo una campagna elettorale su visioni e obiettivi concreti che dia sperabilmente vita una maggioranza politica senza l’estrema destra nazionalista e antieuropeista.
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