Da tempo è emerso ed è stato evidenziato in diversi Paesi al mondo che molti esami e trattamenti sia chirurgici che farmacologici, pur largamente diffusi, in realtà non apportano benefici ai pazienti e addirittura in qualche caso risultano dannosi.
Esami quindi non supportati da prove di efficacia scientifiche ma prescritti per altri motivi come quello di soddisfare un paziente particolarmente pressante, per interesse puramente economico, per una scelta medica difensiva (così mi metto al riparo da eventuali contestazioni) o semplicemente pensando che fare di più, significhi fare meglio.
L’organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha stimato che questo tipo di approccio porti ad una spesa inutile di circa il 30% e che quindi delle linee guida un po’ più selettive (se non restrittive) porterebbero ad un significativo risparmio economico con la possibilità ovviamente di utilizzare il denaro in modo più efficace e corretto.
Già nel 2010 un americano, Howard Brody, aveva lanciato una proposta in parte anche provocatoria alle diverse società scientifiche chiedendo di creare una top five list (un elenco di 5) di test diagnostici o trattamenti prescritti, per quella singola specialità, in modo relativamente comune e che in realtà non apportassero significativi benefici ai pazienti.
Scopo dell’iniziativa ovviamente era quello di attirare l’attenzione sul risparmio economico non avendo come obbiettivo tanto un razionamento delle prestazioni, quanto un miglior utilizzo delle finanze a disposizione del sistema sanitario.
Già nel 2011 comparvero i primi dati che misero a fuoco 12 pratiche sulle quali si sarebbe potuto intervenire subito in modo efficace tra le quali, per fare degli esempi, le radiografie della colonna lombare in assenza di segni neurologici, l’uso di antibiotici nella sinusite, l’effettuazione di elettrocardiogrammi annuali o esami di laboratorio in assenza di sintomi.
Fu anche fatta una stima economica che mise in evidenza un risparmio possibile di 5 miliardi di dollari l’anno solo con l’applicazione della lista Top five.
Su queste basi è nata in America una iniziativa chiamata CHOOSING WISELY (scegliendo saggiamente) che ha poi avuto gemmazione in tutto il mondo Italia compresa.
Detta in parole semplicissime si tratta quindi di un deciso invito a tutte le categorie sanitarie (non solo medici quindi) ad applicare una sorte di buon senso, ma su basi scientifiche, nell’interesse sempre primario della salute del paziente ma tenendo anche conto di costi benefici per cercare di mantenere sostenibile la sanità.
Gli studi non si sono fermati e già nel 2012 gli Annals of internal medicine americani riportavano altri esempi di esami da tenere sotto controllo in quanto costosi ma non utili come rx per cefalea, densitometria ossea per sospetta osteoporosi in donne sotto i 65 anni e uomini sotto i 70, rx del torace pre operatoria, in tutti e tre i casi in pazienti senza ovviamente fattori di rischio.
Per quanto riguarda nello specifico l’Italia, risonanza magnetica, utilizzo di tecnologie complesse in cardiologia (tipo pace maker), il taglio cesareo in gravidanza, il consumo scorretto di antibiotici sono quattro osservati speciali in quanto tutti utilizzati con numeri statisticamente troppo elevati (rispetto anche agli altri Paesi europei).
Credo che tutti, sanitari e no, siano d’accordo filosoficamente su queste indicazioni perché spendere risorse inutili in sanità va a discapito di una ideale sostenibilità.
Personalmente temo però che sia molto complicato attuarlo perché la medicina difensiva che sta alla base di questo enorme problema economico si basa soprattutto sulla qualità del personale in generale (formazione teorico pratica che dà sicurezza professionale) e sull’educazione di tutta la platea dei pazienti.
Due ambiti complessi dove si intrecciano interessi a diversi livelli, organizzazione, politica, senso civico e livello culturale, tutti ambiti nei quali incidere è molto complesso.
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