Ci sono film, come “Zona di interesse”, che entrano nel profondo, di tanto in tanto riaffiorano e ti costringono a ripensarci. Come accade con film emotivamente forti, ogni sequenza colpisce in modo diverso gli spettatori, e lo verifichi anche con le persone con cui hai maggiore affinità.
Il contenuto del film sembra lineare: la famiglia di Rudolf Höss vive in una casa presso il lager di Auschwitz, cioè appena fuori dal muro di recinzione. Si narra della quotidianità degli Höss, vissuta tra prati e ruscelli, fiori del giardino, animali domestici. Il padre va al lavoro ogni giorno, i bambini frequentano la scuola, la madre si occupa della famiglia.
Un film assolutamente diverso dai tanti drammatici sulla Shoah. Eppure sei costretto a parlarne perché ogni scena, per noi che oggi conosciamo la verità, è il rovescio delle altre narrazioni. È una storia senza spargimenti di sangue, spari, mutilazioni, torture, morti. Almeno, non in diretta, ma tutto sta ancora avvenendo oltre quel muro.
Io non riesco a dimenticare la scena che segue. La moglie del nazista, responsabile del campo di sterminio, sta davanti a uno specchio con indosso una lunga pelliccia di visione, sottratta come mille altri oggetti preziosi ai deportati. Osserva compiaciuta l’effetto che fa su di lei quel capo di lusso. Poi si passa sulle labbra il rossetto trovato in una tasca della pelliccia, ma subito si ripulisce: è il rossetto di un’ebrea!
C’è una casa al centro del film, la casa della famiglia Höss. Esiste ed è abitata ancora oggi, passata nei decenni postbellici di proprietario in proprietario, qualcuno ignaro, qualcun altro consapevole dei personaggi che l’abitavano.
Casa dell’orrore? No, anzi. La casa del famigerato Rudolf è il piccolo mondo della sua famiglia: circondata da un ampio giardino con tanti fiori colorati e ben curati.
Sono ovattati i rumori che provengono dall’interno, le urla soffocate, i latrati di cani lontani. Anche se ci sono, le vediamo solo noi spettatori quelle ciminiere che sputano ininterrottamente fumo e cenere e un po’ scoloriscono le vivide corolle dei fiori.
La famiglia Höss certo non le vede perché loro stanno fuori dalla “zona di interesse”. Dentro la casa si svolge la vita di una coppia che ha cinque figli, vigilata da una moglie dedicata al suo benessere con l’aiuto di due domestiche polacche.
Al mattino il padre si reca al lavoro: deve solo passare attraverso il giardino per raggiungere un campo di sterminio che non si vede. Che lavoro svolge il papà, il marito, il padrone? Sarà un bravo padre? Forse sì, solo è un po’ severo. Ma non si chiede né si dice.
Il disagio che provoca la serena famigliola Höss lo senti palpabile nella sala del cinema. Ti aspetti che succeda qualcosa: un dramma improvviso, un evento dirompente, un morto, un deportato in fuga, qualche evento che infranga la gelida quiete del film interrompendo i giochi dei cinque figli, o il tè che la signora Höss serve alle amiche.
Chissà se qualcuno conosce il lavoro di Rudolf. Forse le domestiche, magari la moglie. O il figlio più grande. Ma nessuno chiede. Solo la bambina di famiglia esprime un’inquietudine che ti fa pensare alla patologia dei protagonisti del film. Dorme poco di notte, fa sogni disturbati, vaga per casa. Sembra captare il senso di morte che inquina la famiglia perfetta.
a non esiste salvezza, o redenzione, e nemmeno vero amore in questa forma asettica di vita: ogni cosa appare congelata, ogni gesto sembra avvelenato dal nascondimento della verità.
Ho capito qualche settimana che il messaggio del film di Glazer è prima di tutto uno schiaffo violento all’indifferenza, al cuore imbalsamato dei malvagi, alle coscienze sopite di ieri e di oggi.
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