In quei giorni di quattro anni fa diventarono celebri le immagini di piazza Duomo a Milano, dell’Ara Pacis a Roma, del Lungarno a Firenze: luoghi normalmente brulicanti di vita ridotti a deserti metropolitani, stritolati in una dimensione surreale che gli occhi coglievano ma l’anima faceva fatica ad accettare.
L’omologo varesino è rinvenibile ancora oggi in un bel video dell’agenzia Blitz, girato con il drone sopra il ponte di viale Europa. Schiacciamo play: le due carreggiate che scorrono sotto il viadotto sono prive di auto, di moto, di biciclette, di passanti, di tutta quella normalità che ogni giorno popola uno degli snodi viabilistici fondamentali della Città Giardino; una volante dei carabinieri presidia l’incrocio, pronta a fermare e interrogare; l’obiettivo della macchina fotografica volante a un certo punto si alza, si allarga, arriva a cogliere l’orizzonte, fatto di case, giardini, altre strade: è un paesaggio inanimato, freddo, somigliante a un presepe.
E poi c’è quella luce, che si posa sulle mimose già fiorite, un chiarore fin troppo accesso a queste latitudini per i primi di marzo… Quella luce lì è un ricordo che non se ne va, forse uno dei più intensi, anche dei più agghiaccianti se si pensa al contrasto creato dalla natura gioiosa su un mondo costretto a fermarsi come mai prima.
Era il 9 marzo 2000, il giorno in cui la serie di misure pensate per arginare la galoppante pandemia di Covid-19 venivano riassunte sotto il termine lockdown e applicate a tutto il territorio nazionale. Per Varese lo stravolgimento era già un dato di fatto da 36 ore, facendo essa parte di quel Nord Italia diventato focolaio del virus e per primo sottoposto al contenimento, ma arrivò in realtà due giorni dopo il momento in cui davvero la nostra provincia cadde a due piedi e definitivamente nell’incubo: l’11 marzo a Busto Arsizio morì infatti il dottor Roberto Stella, presidente dell’Ordine dei Medici varesini, simbolo di una lotta impari e a mani nude contro la malattia.
Lì Varese si confrontò con la paura.
Anche a distanza di quattro anni non è facile parlare o scrivere di quei tempi, di quelle giornate che poi divennero mesi, perché non bastano alcuni “brani” condivisi a tracciare una linea comune di sensazioni, reazioni, vissuto. Nemmeno per un giornalista, categoria il cui destino, in quei giorni, subì una sorte peculiare.
I cronisti in un certo senso furono più fortunati di altri, perché non costretti ad abbandonare la propria professione. Ma la sfida straniante fu quella di doversi cimentare con una comunicazione completamente a distanza, soppresse le sedi, le redazioni, gli incontri e i passi consumati per strade ormai irrimediabilmente vuote. Come raccontare, cosa raccontare quando l’orizzonte fisico più raggiungibile diventa la finestra di casa affacciata su un mondo che non c’è più?
E allora si sperimentarono la radio fatta con il microfono del pc (invece che quello del mixer) e le redazioni su whatsapp, le interviste telefoniche a rimembrare la vita che c’era prima e a vaticinare quella che ci sarebbe stata dopo, le rubriche di cucina e quelle sulla letteratura. Ci si improvvisò ragionieri di numeri macabri, fossero essi contagi o vittime, e ci si piegò all’oggettività rapida dei bollettini, aggiungendo un quid di pigrizia a una professione che – ormai avvezza a cercare le notizie sui social invece che con le proprie scarpe – non ne aveva per nulla bisogno.
Ritornarvi con la mente è angoscia e sospensione. Ma anche domanda: come reagiremmo oggi alla medesima esperienza? Abbiamo imparato qualcosa? Saremmo capaci stavolta di far entrare anche dentro di noi la magnifica luce che in quei giorni di marzo 2020 vi restava irrimediabilmente fuori, a illuminare le quinte di un’esistenza che non era più nostra?
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