Il mio sereno e positivo rapporto con le piante, quello che riguarda più o meno tutti i bambini e i giovani venuti al mondo, si è andato via via modificando col passare degli anni.
Ricordo di essermi arrampicata da bambina, con gran soddisfazione, sui peschi del giardino, per sedermi con un libro in mano nell’incavo dei rami intrecciati, di aver adorato la fioritura del ciliegio in primavera – un’esplosione di bianchi petali nell’angolo accanto al berceau- di aver spiato lo spuntare nei boschi, a fine inverno, dei bucaneve e dei mughetti. Di aver seguito incuriosita le manovre di mio padre attorno ai frutti di una vite americana che lui stesso aveva piantata e cresciuta con gran soddisfazione.
A dare il colpo di grazia a questo idillio, che avrei pensato dovesse durare per l’intera vita, hanno soprattutto provveduto i mutamenti meteorologici che portano rovina e paura. Ero sul Lago Maggiore nel 2006 quando una tromba d’aria ha abbattuto all’improvviso centinaia e centinaia di alberi e semidistrutto il Cupressus Cashmeriana. Che, per fortuna, è stato poi salvato dalle buone cure di esperti botanici.
In quei momenti, come del resto è accaduto anche in giorni recenti, vedi solo la furia della natura che avanza e travolge tutto, e avverti la minaccia che può derivare dalla presenza di un’alta, e pur robusta, pianta flagellata da un vento che viaggia a velocità impressionante. Tutto questo porta all’idea di ridurre le piante domestiche, a sguarnire i balconi, a osservare con sospetto gli alti cedri piantati dai nonni nei giardini. Meglio tenerli o abbatterli se non sembrano più che sani? Sono tristi domande, girate per prudenza agli esperti, che tolgono ogni voglia di verde e di colori. Me lo sono chiesto anche a inizio settimana se i capienti vasi dei miei oleandri sul balcone non stessero imbarcando troppa acqua.
Per fortuna i buoni esperti non sono tutti Cassandre.
Lo scorso lunedì lo scrittore e studioso Stefano Mancuso, professore e direttore del Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale all’Università degli Studi di Firenze, intervistato da Corrado Augias sulla sua ultima opera Fitopolis, la città vivente ( Edizioni Laterza) ha allargato il cuore degli ascoltatori. Dopo averci spiegato come il pianeta sia purtroppo destinato a diventare sempre più caldo e asciutto, e in parte deserto -tanto invivibile che una grande fetta di abitanti del mondo dovrà cambiare paese- ci ha però confortato, con una dotta e insieme semplice osservazione: se riusciremo a ripensare le nostre città quali luoghi di nuovo molto accuditi e ospitali -soprattutto con molto più verde tra le case e per le strade, com’era una volta- possiamo sperare di vivere in un mondo migliore. Le piante, ha spiegato il docente, che hanno una vita lunga in quanto dotate di gran resistenza e adattamento all’ambiente, svolgono una funzione calmierante nei confronti del gran caldo perché trattengono calore e acqua e restituiscono quest’ultima in aria fresca. Funzionano insomma come condizionatori. Con la differenza che non rilasciano il calore all’esterno delle case, come succede ai primi. E dunque dobbiamo impegnarci a piantarne milioni di esemplari per salvare il nostro pianeta, sempre più in affanno.
Una lezione, quella di Mancuso, che ovunque comincia a essere recepita e seguita. Anche nella nostra Città Giardino -per fortuna abbastanza verde di suo da sempre- si sta concretizzando con la messa a dimora di due centinaia di faggi, aceri, querce, ciliegi selvatici, tigli montani e altre specie autoctone al Campo dei Fiori -località Cittadella delle Scienze- dopo gli incendi degli anni passati e la tempesta. Altri ottocento alberi sono in arrivo per ripristinare anche l’area sottostante e ricreare l’ecosistema tipico della nostra montagna.
Che bello, insiste Mancuso, se facessimo sempre più posto al verde, anche sui terrazzi e nei cortili cittadini, se osassimo sottrarre spazio alle auto nel centro della città, mettendoci alberi frondosi ma flessibili, adatti all’arredo verde. E cita l’esempio della città brasiliana di Curitiba, trasformata negli anni sessanta dal giovane sindaco, l’architetto urbanista Jaime Lerner, in modello da imitare.
Sono nata a Varese e ricordo il bel viale di pioppi di via Goldoni, dove correva il carretto del gelataio come nella canzone di Battisti, e i platani in piazza della Repubblica lungo il quadrato che la delimita. O la via Tamagno, altro viale alberato che come sappiamo dalle cronache cittadine conduceva nel secolo scorso alla villa del famoso tenore. La via Dandolo è ancora oggi un buon esempio di strada alberata. Così come lo è viale Aguggiari.
Allora esageriamo ancora col verde. Le piante, cita Mancuso, prendendo a prestito le parole dal botanico Timirjazev, sono l’anello che lega il sole alla terra.
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