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Attualità

WEB PIGLIATUTTO

SERGIO REDAELLI - 01/03/2024

corteMentre il governo italiano pensa a limitare la libertà di stampa con tagli e bavagli, Meta, il colosso Usa proprietario di Facebook, Instagram e WhatsApp ricorre al Tar del Lazio e ottiene che venga sospesa l’applicazione della direttiva europea sul copyright che tutela il diritto d’autore, cioè il diritto dei giornalisti e degli editori della tv, della radio e della carta stampata, con i lori siti, a incassare un equo compenso per i contenuti che producono e che sono poi veicolati dalle piattaforme social. Pochi giganti del web controllano infatti i satelliti, l’intelligenza artificiale, i dati personali, le notizie e gli algoritmi, lucrano ricchi profitti con la pubblicità e condizionano la circolazione delle idee.

“Il valore di Borsa di queste aziende si conta in trilioni di dollari – dichiara a Repubblica Enzo Cheli, ex giudice della Corte Costituzionale ed ex presidente dell’Agcom, l’autorità che garantisce la corretta competizione sul mercato delle comunicazioni – In alcuni casi la loro capitalizzazione è superiore al Pil che una potenza industriale come l’Italia, la Francia o il Canada riescono a creare”. Ora si profila una lunga battaglia legale. L’Agcom ha fatto ricorso al Consiglio di Stato contro la sospensiva decisa dai giudici del Tar del Lazio che a loro volta chiamano in causa la Corte di Giustizia Ue, con sede a Lussemburgo, per dire la sua. Con tempi lunghi che bloccano le trattative già avviate tra editori e giganti della Rete.

L’Italia è stata fra i primi Paesi europei a recepire la direttiva Ue 2019 sull’equo compenso e a integrarla nel nostro ordinamento con il decreto legislativo 177 del 2021. Sulla base del decreto, l’Agcom ha poi emanato un proprio Regolamento nel gennaio del 2023. Qui nascono i problemi. Il Regolamento del Garante induce le società che operano su Internet a cercare l’accordo con gli editori che pagano i contenuti autoriali e richiede alle stesse società i dati sensibili per calcolare l’equilibrata retribuzione. Una prerogativa che secondo il Tar del Lazio sarebbe contraria ai Trattati sull’Unione Europea. Di qui l’enigma comunitario da sciogliere.

Il problema dell’equo compenso non riguarda soltanto gli editori e i giornalisti ma anche i fotografi, i registi, gli influencer, i compositori, gli scrittori e i cronisti freelance, pagati una miseria, i cui contenuti originali finiscono in Rete senza che gli autori vedano il becco di un quattrino. Come impedire che torni a imperversare la legge del Far West e in che modo proteggere l’informazione pluralista professionale e le sue risorse? In Italia la legge 416 del 1981 regola le provvidenze per il settore editoriale ma è una norma vecchia di quarant’anni e appare inadeguata ad affrontare le sfide della rivoluzione digitale. È un impegno per la politica che dovrebbe pensare ai diritti anziché perdersi nei divieti e legiferare un quadro normativo adeguato con risorse certe e mirate.

Oggi “gli stanziamenti pubblici vengono decisi di anno in anno con le leggi di bilancio o con gli emendamenti ai decreti Milleproroghe e questo è sbagliato – osserva ancora Cheli – bisogna aumentare gli importi previsti dalla legge e fissarli subito per molti anni”. In altre parole, suggerisce Raffaele Lorusso, ex segretario della federazione della stampa, “la politica dovrebbe avere il coraggio e la visione di avviare una nuova legge dell’editoria che fornisca agli attori del sistema le risorse finanziarie per affrontare il cambiamento, per sostenere gli investimenti nella tecnologia, per valorizzare il lavoro professionale dei giornalisti e delle giornaliste e per migliorare la qualità dell’informazione”. Che prima di tutto deve essere libera.

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