Pur nella consapevolezza di dover pesare adeguatamente l’accadimento (e l’argomento) rispetto a tanti altri ben più decisivi e importanti, il giorno in cui un bimbo scopre il calcio ha un significato identitario che non si può celare.
Il primo amore è il pallone, la sua forma, la sua dinamica così irresistibile, stimolante la rincorsa, l’impatto, la libertà di osare. È forse il momento più puro, scevro di sovrastrutture e schemi, schiavo di niente, nemmeno della passione… ma dura poco: giusto il tempo di capirne qualcosa in più ed ecco fare capolino il tifo, l’identificazione con chi, quella palla, la porta incollata al piede facendoci battere il cuore.
Padri, zii, cugini e amichetti ci mettono quasi sempre lo zampino, formando un pensiero che in breve diventa una risoluzione incrollabile, una delle poche destinate a non cambiare mai – affievolire sì, ma mai negarsi o tradirsi – nell’arco di un’intera esistenza: io tifo…
…io tifo Milan, fu il Rubicone di chi scrive.
Era la fine degli anni ’80 del secolo scorso e i rossoneri rilanciati da Silvio Berlusconi muovevano i primi passi in una grandeur che sarebbe durata per quasi trent’anni. Il fascino delle vittorie non fu da sottovalutare nella scelta di parte, ma la vera consapevolezza dell’importanza delle stesse (e della goduria da esse generata…) sarebbe arrivata più tardi. Più, all’inizio, poterono quei tre personaggi uno diverso dall’altro, ma accomunati dalla nazionalità e da un esotico magnetismo che presto avrebbe fatto il paio con l’apprezzamento delle loro inarrivabili virtù calcistiche.
Rijkaard, Gullit e Van Basten, una filastrocca: il Milan degli olandesi, il Milan di Arrigo Sacchi… il mio Milan. Roccioso centrocampista il primo, ma dotato anche di tocco, opportunismo e visione. Fantasista a tutto campo il secondo, dominante dal punto di vista fisico e grande personaggio fuori dal campo, con quelle iconiche treccine che balzavano subito all’occhio, catturando la simpatia. Un campione, praticamente un idolo, il terzo, universalmente considerato uno dei giocatori più forti della storia del calcio, dotato di una classe pari solo alla sfortuna che lo ha costretto a un ritiro precoce.
Quel Milan non solo vinse in Italia, incantò in Europa e si prese a imperitura memoria uno spazio nell’immaginario mondiale, ma mise in mostra in salsa tricolore brani del famoso calcio totale (guarda un po’: olandese) che Sacchi seppe condire con idee tattiche coraggiose e rivoluzionarie, quasi estremiste davanti alla tradizione.
Mi sono sempre chiesto, però: e se avessi guardato dalla parte opposta della Madunina? Beh, anche in quel caso i poster nella cameretta sarebbero stati tre. Quelli di tre tedeschi, per la precisione: Matthäus, Klinsmann e Andy Brehme. L’ultimo è mancato proprio qualche giorno fa, all’improvviso e in un’età in cui si può ancora ragionevolmente sperare in una vita attiva e piena di soddisfazioni.
La sua morte per arresto cardiaco, oltre all’umana compassione, ha riportato la mente e il cuore di tanti a rileggere le pagine di un calcio che non c’è più.
Se gli olandesi del Milan erano magia, i tedeschi dell’inter personificavano la sostanza, il granito dei muscoli e la baldanza dell’incedere. Con Matthäus e Brehme (e il Trap in panchina) i nerazzurri misero in bacheca lo scudetto dei record (1988/1989), in una stagione folgorante fatta di vittorie e punti (ben 58 quando un successo ne valeva ancora due); con l’aggiunta di Klinsmann, invece, arrivarono anche una Supercoppa Italiana e una Coppa Uefa.
Con Brehme se ne va l’immagine di un avversario rispettato e invidiato, ma soprattutto un altro, piccolo pezzo degli occhi di un bambino ora adulto. Gli stessi che hanno apprezzato le sue sgroppate da terzino sulla fascia, i suoi cross e quel torso poderoso che lo faceva sembrare massiccio a dispetto di un’altezza media.
Ma soprattutto quelli che lo hanno riconosciuto come uno dei protagonisti assoluti del primo evento calcistico interamente solidificato nei ricordi, i Mondiali di Italia 1990. Due flash su tutti: la sciagurata (ahinoi) uscita di Walter Zenga nella semifinale che costò agli Azzurri l’eliminazione per mano argentina, e il rigore che decise la finalissima e decretò la vittoria della Germania (ancora per poco) Ovest sulla stessa Albiceleste. Era l’85’ del secondo tempo, lo tirò e lo segnò proprio Brehme.
Di destro, lui che i calci da fermo di solito li piazzava di mancina.
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