Dal primo al secondo secolo, pur mantenendo una struttura debole, la Chiesa acquista forza entro una federazione di Chiese locali di fatto indipendenti, gelose di autonomie che sviluppano più che altro in senso regionale, grazie ad assemblee che si raccolgono attorno a Roma, Cartagine, Alessandria, Antiochia.
Nel terzo secolo a Cartagine, capitale dell’Africa proconsolare, rifulge l’episcopato di Cipriano (248-258) ai tempi delle persecuzioni scatenate da Decio (250) e Valeriano (257). Diverse le questioni principali affrontate nelle assemblee: come agire nei confronti di chi, dopo l’abiura, chiede la riammissione alla comunità? Che atteggiamento assumere verso quanti, rifacendosi ai libelli pacis di martiri e confessori inclini alla clemenza, invocano una disponibilità più mite? Essere liberali o rigorosi? Cipriano ritiene d’affidare la soluzione del problema a un accordo collegiale tra comunità e confratelli vescovi.
Nel 251 la riammissione dei lapsi è accordata previa penitenza lieve a chi, non avendo sacrificato agli dei, ha solo corrotto i funzionari imperiali per ottenere il libellus liberationis; tre anni d’espiazione invece toccano a quanti hanno bruciato agli idoli, i thurificati e ai colpevoli d’avere effettivamente sacrificato. A Roma nel 251 si tiene sui lapsi un convegno che recepisce le conclusioni di un analogo di un analogo incontro già avvenuto a Cartagine tradizionalmente legata alla Città eterna: gli apostati sono riammessi alla comunione, viene invece scomunicato il rigorista Novaziano. Nel 254 però in occasione della deposizione in Spagna di due vescovi libellatici la situazione si rovescia tra Roma e Cartagine, in base al principio che la validità di un sacramento dipende dalla dignità di chi lo amministra, perciò le comunità hanno la potestà di eleggere vescovi degni o di rifiutare gli indegni.
Quanto al battesimo degli eretici per le Chiese di Roma e di Alessandria, a prescindere da chi lo impartisce, ogni battesimo è valido purché amministrato in nome di Cristo, contrariamente a quanto si sancisce a Cartagine, che ne afferma la nullità e la necessità di ripeterlo. Ad Antiochia la pietra dello scandalo risulta essere il vescovo Paolo di Samosata, più che per le posizioni monarchiane assunte nel salvaguardare l’unità di Dio con l’esito finale di negare la divinità di Cristo, quanto per il modo di esercitare il suo ministero, cumulando la responsabilità della gerarchia civile con lauto stipendio. Deposto, Paolo ricusa la deliberazione, sostenuto dalla reggente dell’autoproclamato regno di Palmira, Zenobia. I suoi avversari si rivolgono allora all’imperatore Aureliano (215-275), nemico di Zenobia, che si riprende il regno a fil di spada, con lo storno della soluzione della controversia al vescovo di Roma.
Col progredire del tempo, comunque, la sede romana, che affonda le radici nel prestigio di Pietro e di Paolo, prende sempre più coscienza della propria autorità, ingerendosi anche in questioni interne ad altre sedi episcopali pure extra italiane. Cipriano invece pur riconoscendo la primogenitura temporale della Chiesa di Roma, sostiene l’unità nell’eguaglianza di tutte le sedi.
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