Il pontificato di Paolo VI (1963-1978) segnò il ritorno della Santa Sede sulla scena internazionale, riportando il papato a ricoprire un ruolo di protagonista nell’ambito della diplomazia europea e mondiale, dopo quasi due secoli di esclusione.
Dal giugno 1963 all’agosto 1978 gli Stati accreditati presso la Santa Sede aumentarono di numero: da quarantanove a ottantanove, e le rappresentanze presso di essi (delegazioni apostoliche e nunziature) furono notevolmente incrementate. Grazie alla creazione di un posto come osservatore permanente a New York (1964) e poi a Ginevra (1967) per la Santa Sede si svilupparono anche le relazioni con le organizzazioni internazionali (Onu, Bit, Fao, Unesco).
Benché il Concilio vaticano II non si fosse occupato di politica, almeno non espressamente, aveva aiutato la Chiesa a riconsiderare il suo rapporto con il mondo: essa non si sarebbe più occupata, sul piano della diplomazia, della difesa della libertas ecclesiae, piuttosto si sarebbe diretta, nel solco della promozione della pace, verso la politica del dialogo, promossa da papa Montini.
Fu proprio Paolo VI con l’enciclica Ecclesiam suam del 6 agosto 1964 a pronunciarsi a tale proposito in questi termini: «la Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio».
La politica del dialogo si mostrò presto dinamica e innovativa, almeno su due fronti: da un lato innovò la tradizione sedentaria dei pontefici romani, rendendo Paolo VI il primo papa a viaggiare in aereo; dall’altro contribuì a realizzare i propositi del vescovo di Roma di incamminarsi verso il mondo, per incontrare e per dialogare con «tutti gli uomini di buona volontà».
È significativo che il primo viaggio di papa Montini si stato in Terra Santa nel 1964, in pieno periodo conciliare, e venne inteso come un ritorno «da dove Pietro è partito, portatore del messaggio cristiano». A questo seguirono quello verso l’India e New York, dove il 4 ottobre 1965, dinnanzi all’assemblea generale della Nazioni Unite, pronunciò un discorso di pace e di fratellanza, presentandosi come «il messaggero che dopo lungo cammino arriva a recapitare la lettera che gli è stata affidata».
Il loro successo spinse il pontefice a proseguire anche al termine del Vaticano II, sia all’interno dei confini europei (Portogallo), sia in Paesi più distanti da essi (Uganda, America Latina, Oceania, Cina, Indonesia, Isole Samoa e Filippine), puntualizzando che la Chiesa non aveva interessi temporali propri da difendere, piuttosto lo spirito che la animava sarebbe stato quello di «promuovere la sana libertà, la giustizia sociale, la pace».
Nell’arco dei suoi viaggi, papa Montini non mancò di intessere un dialogo con i regimi comunisti dell’Europa centrale e orientale, anche in questo frangente fu sempre mosso dalla speranza che i contatti stabiliti con ciascuno dei luoghi visitati potessero «servire la grande causa della pace tra i popoli».
La scelta di farsi “pellegrino nel mondo”, inoltre, pose radici destinate a portare molto frutto tra i suoi successori, a cominciare da Giovanni Paolo II, il pontefice che viaggiò più di tutti gli altri papi con i suoi duecentocinquanta viaggi tra l’Italia e l’estero, contribuendo a estendere la politica di dialogo e di apertura che oggi ammiriamo in papa Francesco.
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