Un’occasione persa. Il 74° Festival di Sanremo visto in tutto il mondo avrebbe potuto lanciare un provvidenziale, utile e forse fruttuoso messaggio di condanna delle devastazioni a cui Putin da due anni sottopone l’Ucraina, della carneficina che il 7 ottobre Hamas ha compiuto in Israele e della tremenda vendetta che da allora imperversa nella striscia di Gaza in Palestina. Avrebbe potuto schierare contro gli ordigni di morte degli arsenali militari il sottovalutato potere dei fiori e delle canzoni e la consueta, prevedibile coda di ragionamenti, discussioni e polemiche post-festivalieri. Non lo ha fatto o non lo ha potuto fare e quando ci ha provato, tardivamente, nei dibattiti del dopofestival, è stato zittito.
Ricorrere all’uso delle armi, come spesso ricorda papa Francesco, è cedere al peggio dell’istinto umano, è rinunciare all’uso mediatore, intelligente e diplomatico della parola. Un problema antico come il mondo, ma non per questo bisogna silenziarlo.
“Mettete dei fiori nei vostri cannoni”, cantava profeticamente a Sanremo il gruppo beat dei Giganti nell’edizione del 1967, l’anno terribile della guerra nel Vietnam e del conflitto arabo-israeliano tra Israele, Egitto, Siria e Giordania. Per stare agli esempi più recenti l’anno scorso Tananai scrisse un testo sull’Ucraina e il direttore artistico Amadeus lesse sul palco di Sanremo un messaggio del presidente Zelensky.
Sempre nell’edizione 2023 Roberto Benigni parlò della Costituzione “che canta la libertà e la dignità dell’uomo” davanti al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e a milioni di telespettatori. È lecito chiedersi: che cosa è cambiato dal mese di febbraio dello scorso anno quando il governo si era appena insediato e Carlo Fuortes era ancora l’amministratore delegato della Rai? Che lo si voglia o no il Festival non è solo la ribalta canora tutta pizzi e lustrini a cui si vorrebbe ridurlo, è un momento di incontro e di confronto, di musica, testi e commenti per ragionare di quanto accade nel mondo. O almeno così si è sempre fatto in passato, magari tra le polemiche.
Provocatoriamente Edoardo Bennato rivendicava la piena libertà di espressione contro le aspettative o i diktat della politica cantando “sono solo canzonette”. Il potere della musica è enorme quando non se ne vogliano censurare i messaggi. Da “Blowin’ in the Wind” di Bob Dylan a “Imagine” e “Give peace a chance” di John Lennon la musica condanna la guerra. In Italia lo hanno fatto “Auschwitz” di Francesco Guccini, “Generale” di Francesco De Gregori, “C’era un ragazzo” di Gianni Morandi, la “Guerra di Piero” di Fabrizio De André e tante altre canzoni popolari. Musica e parole. Allora perché prendersela con lo “stop al genocidio” di Ghali e con il “cessate il fuoco” di Dargen D’amico, due musicisti che invitano alla pace a fine esibizione?
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