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Politica

COLLISIONE

ROBERTO CECCHI - 09/02/2024

larussaIl presidente del Senato, Ignazio La Russa, parlando di autonomia regionale differenziata e di presidenzialismo, ha detto che “Le due riforme si tengono insieme: quella della maggiore autonomia per le Regioni […] insieme ad una maggiore presenza dello Stato centrale con il premierato. Cioè, l’autonomia differenziata va bene, a patto che lo Stato centrale assicuri identità nazionale, perché all’unità nazionale ci tengo in maniera particolarmente forte. Le due cose stanno insieme” (Ansa, 25.1.24). In sostanza, l’esponente di FdI e seconda carica dello Stato, parlando a «Diritto e rovescio», su Rete 4, si è preoccupato di sottolineare l’importanza che le due riforme non siano in conflitto tra di loro. Auspica che si integrino, a salvaguardia dell’identità nazionale.

Perché il presidente del Senato si preoccupa di sottolineare quel che dovrebbe essere un’ovvietà? Cominciamo col premierato. Che lo si condivida o meno, è un progetto di riforma molto chiaro. Si fonda su un’idea verticistica del potere e ha come obbiettivo la “governabilità”, superando le condizioni di instabilità e d’inefficienza che hanno caratterizzato i governi dei primi trent’anni di vita repubblicana. Questo a causa di una Costituzione eccessivamente garantista, fatta di troppi pesi e contrappesi, di checks and balances, come dicono gli specialisti, e di una legge elettorale rigorosamente proporzionale (Cheli, 2022). La riforma, che in passato ha avuto molti estimatori, non solo a destra, è incarnata nella figura del Presidente/premier. Da lui promana tutto, regole, leggi, indirizzi, eccetera. Un potere accentrato, con i ministeri e gli altri organismi istituzionali come regioni, province (?) e comuni, allineati e coperti. Ha un sapore un po’ di stantio, che rimanda ad esperienze passate, non proprio esaltanti, ma ha il pregio della semplicità.

Mentre il disegno di legge d’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario è pensato per attribuire alle regioni competenze statali. Le materie che potrebbero transitare dal governo centrale a quello periferico potrebbero essere svariate. Vale la pena citarle: “salute, istruzione, università, ricerca scientifica e tecnologica, lavoro, giustizia di pace, beni culturali, tutela dell’ambiente, rifiuti, bonifiche, caccia, difesa del suolo, governo del territorio, infrastrutture stradali e ferrovie, rischio sismico, servizio idrico, commercio con l’estero, agricoltura e prodotti biologici, pesca e acquacultura, politiche per la montagna, sistema camerale, coordinamento finanza pubblica regionale, enti locali”. È un progetto di riforma che porta le Regioni ad avere un “peso” statuale, evidentemente.

Così, l’assetto del Paese attuale cambierebbe radicalmente. Ne verrebbe fuori uno spezzatino, con quattro regioni a statuto speciale, due province autonome, un certo numero di regioni ad autonomia potenziata (ognuna un po’ diversa dalle altre) e poteri centrali residuali. Ne abbiamo già parlato su queste colonne, sottolineando che in questo modo, oltretutto, si genererebbero ulteriori disuguaglianze sociali, quelle che tutti, a parole, vorrebbero eliminare, perché la riforma prevede che i servizi erogati vadano commisurati al gettito fiscale. Per cui, contro ogni logica, vivendo in una regione a maggior reddito, si avrebbe diritto a più e migliori servizi.

Il costituzionalista Ugo De Siervo, per far capire quel che potrebbe accadere, ha fatto un esempio illuminante “Se do più poteri a una Regione in materia di sanità – dice – questa dovrebbe poter adottare una sua legge in quel settore. Ma se la adotta, modifica tutta la legislazione nazionale“. E quindi, gli è stato chiesto, questo viola l’attuale assetto costituzionale unitario? “Sì, voglio dire proprio questo. Perché da una modifica in apparenza solo amministrativa ne derivano delle conseguenze anche sull’intera legislazione nazionale” (Rai news 24, 23.1.24).

Dunque, il presidente del Senato ha ragione a preoccuparsi. Le due riforme che sembrano correre parallele, rischiano di collidere. Non stanno affatto insieme come si vorrebbe. Da una parte c’è la visione di uno Stato organizzato gerarchicamente, dall’alto verso il basso e, dall’altra, invece, un sistema regionale che si pone sullo stesso piano di quello dello Stato, scommettendo di poter far meglio. Col Covid s’è visto il contrario. Le regioni, durante la pandemia, non son riuscite a coordinarsi, se non a fatica, e sotto lo stimolo centrale. Con questa riforma si rischia di dover andare in Svizzera a farsi curare un raffreddore.

Come possono convivere in unico Stato due assetti tanto diversi? Così, non si rischia solo di perdere l’identità, come teme La Russa. Si corre il pericolo ben più grave di un corto circuito istituzionale, con ricadute inimmaginabili, su tutti i settori della vita civile e sociale.

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