Si può ben capire che il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ogni tanto perda la pazienza. Rigoroso, pragmatico, serio e competente quale è (con una giusta dose di varesinità) deve ogni giorno fare i conti con una politica fatta di slogan, di proclami, di affermazioni apodittiche fondate sulla sabbia. Ha dovuto accettare l’assurda opposizione al Mes (Meccanismo europeo di stabilità) che ha lasciato l’Italia ai margini della solidarietà europea. Ha dovuto imbracciare scudi e lanciafiamme per impedire l’assalto alla diligenza dei conti pubblici, in particolare per chi chiedeva la proroga di quel bonus del 110% che ha già creato una voragine nel bilancio pubblico. Deve cercare ogni giorno di spiegare ai suoi colleghi parlamentari (in particolare al suo capo-partito) che ogni scelta ha un costo che qualcuno dovrà pagare.
Non è certamente facile impostare, come si dovrebbe, una sana politica di equilibrio tra Stato e mercato e di apertura internazionale dell’economia in un contesto, come quello dell’attale maggioranza, in cui prevalgono nazionalismi velleitari, nostalgie dello Stato padrone (tanto paga Pantalone), spinte anti-europee e voglie di rivincita.
Non è facile anche perché se lo Stato è difficile da riformare non è che il mercato, cioè i privati, abbiamo dato buona prova di sé. Basta leggere qualche riga di Marco Onado e Pietro Modiano (il primo professore, il secondo banchiere) nel libro “Illusioni perdute”: “Il capitalismo italiano – scrivono – non è riuscito ad uscire dai propri limiti genetici, limiti che finiscono per sovrastare virtù manageriali e imprenditoriali spesso notevoli e che quasi sempre hanno a che fare con una carente cultura del rispetto delle regole, in questo caso (l’Ilva, ndr) in materia ambientale e fiscale, che stanno alla base del patto sociale e che dovrebbero connotare una classe dirigente.”
Nelle vicende degli ultimi trent’anni, infatti, si possono leggere tutti i punti critici di un Paese alle prese con un impegno storico: quello di restituire importanti settori industriali al mercato, quindi alle logiche dell’imprenditoria e della concorrenza. Con due obiettivi di fondo: in primo luogo inserire in questi settori logiche di efficienza e di innovazione, e poi aiutare con i proventi delle privatizzazioni il sempre indispensabile risanamento delle finanze pubbliche. Ma la battaglia si è dimostrata sempre più complessa tra le rivendicazioni dei sindacati, le incursioni della magistratura, le pressioni dei politici, le incertezze dei mercati, le potenzialità dell’innovazione, la scarsità dei capitali, il necessario rispetto dell’ambiente.
Negli anni ‘90 era molto estesa la presenza dello Stato nell’economia: non solo acciaio, ma anche banche, telefoni, autostrade, linee aeree. La strada delle privatizzazioni ha visto pochi successi, qualche clamoroso fallimento come nel caso delle telecomunicazioni e molte vicende che dopo trent’anni non hanno ancora trovato soluzione come per Alitalia per la quale solo ora si intravvede una via d’uscita grazie all’accordo di Ita con Lufthansa.
Ora si riparla di privatizzazioni. Ma intanto lo Stato ha dovuto riprendere la maggioranza di Autostrade e deve ora risolvere la crisi dell’Ilva. Mentre conta di ottenere qualche miliardo cedendo una piccola quota di Poste, ma stando ben attento a non perdere il controllo della società. Mentre resta sempre in sospeso l’apertura al mercato delle concessioni balnearie e delle licenze dei taxi.
Il ministro Giorgetti ha pane per i suoi denti. Ed è un peccato che sia lasciato solo.
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