Le intercettazioni sono uno spreco di soldi pubblici o un investimento indispensabile nella lotta alla corruzione, quell’odioso reato che vede l’Italia boccheggiare nei bassifondi delle classifiche? Come al solito la politica divide e fa litigare gli italiani. Da una parte il ministro della giustizia Carlo Nordio insiste: i tagli al budget sono giustificati dagli alti costi legati all’uso di microspie, cimici, trojan, software ed altre diavolerie utilizzate nelle intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali. Dall’altra i numeri calcolati sulle indagini svolte dalla Guardia di Finanza lo smentiscono. A fronte di 200 milioni spesi lo scorso anno per le “spiate” tecnologiche, lo Stato ha sventato danni erariali per 3,33 miliardi.
La criminalità organizzata, il traffico di stupefacenti e i reati dei “colletti bianchi” sono gli ambiti in cui le intercettazioni sono più incisive e gli eccessi di spesa si verificano per Nordio proprio nelle indagini sui reati contro la pubblica amministrazione. Il ministro li considera “reati obsoleti” e accusa le Procure di spendere troppo: “Serve razionalizzare”. Ma la valutazione del Guardasigilli non convince. Secondo i dati resi noti dalla stampa nazionale, la corruzione è la più vitale impresa del nostro Paese e “fattura” 237 miliardi (contro i 900 dell’intera Europa) pari al 13 per cento del prodotto interno lordo nazionale.
Contro il ministro insorgono i giornalisti già sul piede di guerra per il progetto di modifica dell’articolo 114 del Codice di procedura penale, avanzato dal deputato di Azione Enrico Costa, che vieta la pubblicazione “integrale o per estratto” dei mandati di arresto fino al termine delle indagini preliminari (e già si parla di inasprire la norma silenziando del tutto gli atti). La Federazione nazionale della stampa lo ritiene un bavaglio alla libera informazione e chiede al presidente della Repubblica Sergio Mattarella di non firmare una legge che giudica inaccettabile.
Sul tema delle intercettazioni si levano le proteste anche della magistratura: “Sono l’unico mezzo di ricerca della prova utile e utilizzabile per il più diffuso reato contro la pubblica amministrazione, il reato di corruzione che è il cancro della nostra economia – attacca il sostituto procuratore presso la Direzione distrettuale antimafia di Napoli, Henry J. Woodcock – È proprio con questo mezzo di ricerca della prova che si arriva al sequestro e poi alla confisca del denaro, dei beni mobili e immobili che sono il provento/profitto di illeciti penali per un valore che supera di gran lunga le spese affrontate per eseguire le intercettazioni”.
Discusso nel suo complesso è il disegno di legge di riforma della Giustizia concepito dal governo Meloni e ora al vaglio del Senato che prevede, oltre a ridurre le intercettazioni, di abolire il reato di abuso d’ufficio che lega le mani ai colletti bianchi (“in barba all’Europa e agli avvertimenti del capo dello Stato”, ammonisce Gian Carlo Caselli), di limitare il reato di traffico di influenze illecite in cui cade chi si adopera per ottenere favori, di obbligare il pm (tranne in determinati casi) ad avvisare con cinque giorni d’anticipo chi deve essere arrestato per poterlo interrogare, di allargare a tre giudici la decisione sull’arresto prima affidata al solo gip e altro ancora.
Il governo vuole limitare i poteri della magistratura e controllare la stampa? Se lo chiede non solo chi riflette sulla riforma della Giustizia ma anche chi osserva con incredulità l’occupazione dei ruoli apicali nella derelitta tv pubblica per orientare la narrazione dei fatti, chi assiste ai continui attacchi contro il giornalismo d’inchiesta che in tv fa il proprio mestiere informando la pubblica opinione di quello che accade a prescindere dall’importanza dei personaggi coinvolti. Se lo chiede, con sconcerto, chi vede la premier Giorgia Meloni attaccare un quotidiano che esprime opinioni diverse dalle sue durante l’intervista a una tv che appartiene all’area politica di un partito alleato. Parlava da presidente del consiglio o da politico di parte?
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