È una storia di acqua, quella che ha accarezzato la parabola – esistenziale prima ancora che professionale – di Rombo di Tuono.
L’acqua dolce, “spessa”, in cui si riflettono le montagne, ornata di paesini ordinati e soffiata da un’aria frizzante. E l’acqua salata, limpida, calda, colorata, che sospende una terra lasciandone immaginare altre lontane.
L’acqua del lago Maggiore e l’acqua del mare che circonda la Sardegna: è ammirando con le ciglia strette entrambe che Gigi Riva è cresciuto, ha spiccato il volo, ha deciso di andare, rimanere, tornare. È a questi elementi, uguali e diversi, che ha giurato fedeltà eterna, senza mai venire meno a patti dell’anima che sono diventati patti della mente.
In questi giorni di cordoglio dalle medesime risale un’immagine mitica identica, sebbene siano separate da centinaia di chilometri e da differenze culturali incolmabili. Entrambe restituiscono lo stesso uomo: vero, fiero, d’un pezzo unico, granitico. Burbero ma di cuore.
Grazie a Riva, prima in vita, ora in morte, la nostra terra è diventata “capitale”, così come lo sono le voci che da essa si levano forti, perché più di altri e solo al pari di quelle isolane hanno la dignità per raccontare davvero il campione. Un campione prima di tutto nostro.
Ce n’è di ogni: piccoli pezzi che vanno a completare un puzzle ammirato in tutta Italia e poi nel mondo.
Ci sono gli anziani di Leggiuno, che oggi fanno finta di non sentire quando i cronisti provano a indagare sulla vita privata del “furzelina” – forchettina, un nomignolo datogli in gioventù per una magrezza che non faceva presagire la successiva esplosione del Tuono – quasi avessero da conservare e portare avanti la sacra riservatezza del personaggio: niente amori, niente gossip, ma aneddoti sì. Che vanno dalla spiaggia di Reno ai giri in vespa nelle notti d’estate, lungo le strade rivierasche tutte curve alla ricerca dei tornei estivi in cui esibirsi, o dalle immagini di un’infanzia umile, paesana e in salita a una traversa del campetto in terra di Caravate che, a distanza di 65 anni, ancora trema per il sinistro del bomber.
Il sinistro, già, piede prediletto. E allora ecco chi fa a gara a dire “io c’ero” quando Riva segnò di destro, nella porta del Franco Ossola ombreggiata dal Sacro Monte: 1-0, Varese condannato alla Serie B. Rombo di Tuono dichiarò: «Prima di tirare ho guardato la madonna del Sacro Monte…».
Luigi fu Gigi è un cimelio da custodire anche per gli abili cronisti di queste lande, in un misto tra imprese giornalistiche più o meno andate in porto e memorie da appassionati e tifosi (dietro a un giornalista, a volte lo si dimentica, c’è sempre un uomo). E così è allora gustoso rileggersi gli appunti del “Direttore” Max Lodi, quando narra di quell’intervista declinata con un sorriso («stretto») al Palace o di quell’ambasciata fatta alla casa di Leggiuno in un pomeriggio di luglio del 1970, insieme al fotografo di Prealpina Mario Broggini, per consegnare una gigantografia, conclusasi – dopo un po’ di attesa e il rischio di essere spediti al mittente senza passare dal via – con una pacca sulle spalle e un «dài, vi voglio bene».
Gigi, per noi, è lo spettacolo teatrale di un regista sognante. È «mi ha detto che sono un bravo ragazzo e non lo scorderò mai». È «quando ci siamo incontrati in Sardegna abbiamo parlato tutto il tempo il dialetto varesino». È l’architetto varesino che decise di farsi pagare dal Cagliari Calcio per una consulenza non con i soldi, ma con una maglia numero 11. È quella frase: «Quando atterro a Malpensa, sento l’aria di casa».
Burbero? Per nulla: semplicemente uomo di lago, uomo di questa terra.
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