A consacrarne il successo fu il film “La grande fuga” (The great escape) di John Sturges. A Varese il film fu proiettato in prima visione al cinema Vittoria di via Bagaini. Era l’autunno incipiente del 1963. Steve McQueen, maglietta turchese e pantaloni bianco-sporco, compariva sulle locandine in sella a una rampante motocicletta della Wermacht, targa WH13371: sarebbe dovuta essere una Bmw, il mezzo in dotazione alle forze armate tedesche; in realtà – si seppe poi – si trattava di una Triumph Tr6 Trophy mascherata. Le scene più spericolate (tranne il famoso salto del filo spinato) erano state girate dallo stesso McQueen, che era un provetto motociclista, oltreché un audacissimo – e bravo – pilota di auto da corsa.
L’attore interpretava la parte del capitano dell’aeronautica Virgin Hilts. In perenne fuga da sé stesso, e dalla vita. Non è un caso: la scena ricorrente del film – il capitano fuggiasco, tutte le volte ricatturato dai nazisti e imprigionato – era il leit motiv del passato di Steve McQueen, che giovanissimo era stato in riformatorio.
Steve McQueen – al secolo Terence Steven McQueen – era nato il 24 marzo del 1930 – perciò quando girò “La grande fuga” aveva trentatré anni – a Beech Grove, contea di Marion, nell’Indiana, la stessa contea di cui è capoluogo Indianapolis: i latini avrebbero detto che già nelle sue origini era scritto il destino della vita, delle corse spericolate e delle fughe. Sua madre, Terry, era stata abbandonata dal marito, William, un irlandese poco attento ai sentimenti e ai doveri della famiglia, sei mesi dopo che aveva partorito il piccolo Steve. Il quale, scontroso, violento, ribelle e insofferente di una pur minima disciplina, come detto, già a dieci anni veniva inserito in una scuola correzionale di Los Angeles, in California, dove la madre s’era trasferita.
Non si deve credere, tuttavia, che il giovane Steve fosse entrato nel mondo dello spettacolo per puro caso e immeritatamente. Dopo essere stato per anni mozzo e marinaio sulle navi mercantili e avere servito la patria nei marines, trovando un po’ di pace, era stato il miglior allievo della scuola di recitazione di Sanford Meisner, a New York, e – in seguito – uno dei discepoli prediletti di Elia Kazan e Lee Strasberg, all’Actor’s Studio, sempre a New York, la stessa scuola frequentata in quegli anni – tanto per fare qualche nome – da James Dean e Paul Newman (per certi versi così simili a Steve), da Marlon Brando e da Marilyn Monroe.
E nemmeno McQueen era arrivato alla consacrazione della “Grande fuga” come fulmine a ciel sereno. Solo tre anni prima, nel 1960, infatti ancora John Sturges lo aveva diretto nei “Magnifici sette” (The Magnificent Seven), lo straordinario rifacimento western dei “Sette samurai” di Kurosawa. Steve interpretava la parte del pistolero Vin, uno dei tre sopravvissuti. Tra l’altro, sul set di “La grande fuga”, poco più tardi, Steve avrebbe reincontrato altri due famosi protagonisti dei “sette”: James Coburn, il lanciatore di coltelli Britt e poi l’ufficiale Sedgwick, uno dei pochi che riesce a fuggire dal campo di prigionia nazista; Charles Bronson, nella realtà più anziano di McQueen di quasi dieci anni, il cowboy Bernardo O’Reilly nei Magnifici e “Il re del tunnel” Velinski nella Grande fuga. Anche Coburn e Bronson, in un certo senso, assomigliavano un po’ a Steve, se non altro per la vita di sacrifici e per il grande, assoluto impegno che avevano poi messo nello studio della recitazione.
Della trentina di film che la filmografia ufficiale attribuisce a Steve McQueen – tutti di eccellente livello – andrebbero ricordati “Bullit” di Peter Yates, del 1968, dove il nostro attore recita, appunto, nella parte di Frank Bullit, tanto malinconico e solitario tenente di polizia quanto spericolatissimo pilota di una Ford Mustang Gt sulle strade di San Francisco e – più di Papillon, film del 1973 di Franklin J. Schaffner, anche qui un’opera di prigionia e di fughe – “Getaway” (The Getaway), di Sam Peckinpah, 1972, che tra l’altro in inglese è sinonimo di fuga, il film durante il quale Steve incontrò l’attrice Ali MacGraw, che sposò l’anno dopo (McQueen ebbe tre mogli: l’attrice e ballerina Neil Adams, due figli da lei: Terry – morta a trentotto anni – e Chad, la MacGraw e infine la modella Barbara Minty).
Nel 1979 fu diagnosticato a Steve un mesotelioma, un tumore che colpisce la pleura e i polmoni e che, purtroppo, non lascia scampo. È il tumore associato all’inalazione di polveri di amianto e che qualcuno ha voluto attribuire alla contaminazione dovuta alle tute ignifughe che l’attore e pilota indossava durante le corse.
Per sfuggire alla malattia Steve McQueen tentò di tutto. Anche la medicina alternativa, dopo che erano state esperite altre cure, chirurgiche e no, con la terapia al Laetrile, basata su una sostanza contenuta nelle mandorle di albicocca, e che gli fu praticata – negli ultimi mesi di vita – in Messico. Morì il 7 novembre 1980 a Ciudad Juàrez. Aveva cinquant’anni.
È famosa la citazione del nome di Steve McQueen nella canzone “Vita spericolata” di Vasco Rossi (Festival di Sanremo del 1983), quasi a rappresentare – appunto – una vita piena di audacia e di spericolatezza, che aveva come miti la fuga, la velocità, il coraggio. In realtà la vita di Steve – specie nell’ultimo anno – fu una vita disperata e sfortunata. Amarissimo, ma vero, il commento di Ali MacGraw alla notizia della morte dell’ex-compagno: “Ha corso per tutta la vita, cercando di scrollarsi di dosso il cancro che aveva nell’anima. Era condannato fin dall’infanzia: quando si parte in modo tanto disgraziato arrivare al traguardo è impossibile, si può soltanto sperare di diminuire lo svantaggio schiacciando l’acceleratore a tavoletta”.
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