La presenza dei sacerdoti nella letteratura europea moderna e contemporanea è significativa, e la notorietà di alcuni di questi è quasi universale. Si pensi a don Abbondio nei Promessi sposi di Manzoni, a Padre Brown, il prete investigatore dei racconti di Chesterton, al parroco di Ambricourt di Bernanos e a don Camillo di Guareschi. La fortuna di ciascuno di costoro non si limita all’ambito letterario: anche il cinematografo ha contribuito a renderli memorabili.
C’è però un altro sacerdote la cui memoria è scivolata ingiustamente nell’ombra. È don Raimondo Viale, nato a Limone Piemonte nel 1907, che -ormai sul declinare dell’esistenza- volle raccontarsi a Nuto Revelli, partigiano e scrittore di valore. Il risultato fu un libro: Il prete giusto.
Malato da tempo e ormai degente presso la Casa di cura di Monserrato, egli ripercorre con l’interlocutore la sua vita non senza avvertire una certa fatica fisica ed emotiva. Nato in una famiglia umile, riteneva la povertà un dono di Dio, terreno fertile che aveva contribuito a renderlo così pugnace e resistente ai soprusi riservatigli poi dalla guerra.
Fin dai primi anni del seminario non si piegò alla dura disciplina e agli abusi di potere dei superiori, ma questo fu solo l’inizio di un percorso vissuto all’insegna del coraggio e della difesa degli ultimi, in nome del Vangelo.
Entusiasta e pieno di iniziativa, avvertì presto l’importanza della cultura e della formazione dell’uomo dedicandosi in particolare ai giovani e alla promozione di un circolo, animato da ragazzi che potevano scegliere di cimentarsi nelle più diverse attività (lettura, sport, cinematografia) e nelle escursioni in montagna durante il periodo estivo.
L’indole brillante del sacerdote venne punita dai fascisti, che lui disprezzava e di fronte ai quali non cedeva. In un giorno di primavera, dopo ripetuti avvertimenti, venne ridotto in fin di vita a suon di calci e pugni. In risposta alla sua irrefrenabile disposizione alla resistenza, lo spedirono al confino in Molise, ad Agnone, a seguito d’una delazione di uno dei fedeli che presenziavano alle prediche controcorrente.
Anche se lo sconforto tentò di piegarlo, e se talvolta si sentì privo del sostegno che sperava di ricevere dalla Curia, ritrovò nei giovani agnonesi la speranza e la forza per non perdersi d’animo.
Ma il periodo più difficile doveva ancora venire, e fu successivo all’armistizio dell’8 settembre 1943.
Don Viale si trovò a soccorrere gli ebrei nascosti nelle valli limitrofe alla sua parrocchia, e a dialogare con i partigiani. Si distinse per coraggio e umanità quando accompagnò alla fucilazione tredici giovani, confessandoli e sostenendoli con la forza della parola e della comunione. Salvò poi un ragazzo dall’esecuzione convincendo un fascista a rilasciarlo, e fu costretto ad assistere all’uccisione brutale di alcuni suoi confratelli, per mano dei tedeschi.
Contestò i comunisti e intervenne nei comizi per dissociarsene pubblicamente dalle idee.
Più tardi, al termine della guerra, subì una sospensione a divinis, ma talvolta osò dir messa in segreto, soprattutto per commemorare i giovani che aveva accompagnato alla morte.
Nel 1980 divenne uno dei “Giusti” di Israele, affrontando un lungo viaggio per raggiungere i «fratelli ebrei». Nel racconto a Revelli, don Viale decise di lasciare una sintesi più rapida degli episodi del dopoguerra: la sofferenza del ricordo, insieme alla malattia, forse era diventata per lui più difficile da sostenere, perciò fece un’eccezione alla sua abitudine, scegliendo il silenzio.
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