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Attualità

L’EMERGENZA

ROBERTO CECCHI - 12/01/2024

maternitaIn quest’inizio d’anno sarebbero molti gli argomenti di attualità di cui parlare. Del “pistola”/pistole, delle spiagge libere/occupate, ancora del PNRR fattibile/non fattibile, delle guerre d’invasione/ritorsione. I temi davvero non mancano. Però, in questi giorni, quel che mi ha incuriosito, sorpreso e un po’ impressionato è stato leggere la testimonianza di una donna che parla della sua gravidanza “La colpa era mia: ero incinta di trentadue settimane e avevo passato quei sette mesi a ripetere che odiavo la gravidanza. La vita mi stava punendo per la mia ingratitudine. Eppure, io Lucio lo amavo. L’ho amato dal primo momento in cui era solo una linea su un bastoncino intriso di pipì. Ma detestavo aspettarlo, non sopportavo l’ansia delle visite, l’affaticamento del coro, le rinunce, le paure, le informazioni da apprendere e quelle da ignorare. Non reggevo al terrore che qualcosa potesse andare storto” (Giulia Muscatelli, «La Stampa», 3.1.24). E leggendo il libro della stessa autrice, Balena (ed. Nottetempo), sullo stesso tema, si scopre che è anche la storia di una persona che, in seguito a quel travaglio, si riappropria di sé e del suo corpo. Un lieto fine, insomma, di una storia molto tormentata.

Per certi versi, è un racconto inquietante, che fa riflettere perché, anche se è la storia di una sola persona e, quindi, in quanto tale, non può essere generalizzata, è inevitabile porsi delle domande di carattere più generale, come interrogarsi sul perché un evento come la maternità, che dovrebbe far parte della normalità, possa essere motivo di tanto travaglio. Eppoi, bisognerebbe scoprire se quel disagio non sia molto più diffuso di quanto non si creda. È difficile dare una risposta argomentata in questo senso. Quel che è certo è che ormai, da tempo, in Italia nascono molti meno figli. La decrescita demica degli ultimi decenni, testimoniata dai numeri, è impressionante. Ed è un fenomeno che riguarda l’intera Europa. Nel 1970 nel nostro continente i giovani (gli under 25) erano oltre il 40% della popolazione, mentre oggi sono il 25%. Ma rispetto a questo valor medio, l’Italia va ancora peggio. A partire dalla fine degli anni Settanta il numero medio di figli è al di sotto della media europea e “nella prima metà degli anni Novanta siamo diventati il primo Paese al mondo con under 15 scesi sotto gli over 65, ovvero nel quale la generazione dei nonni è diventata maggiore di quella dei nipoti” (Rosina 2023). Senza insistere troppo coi numeri, è evidente che stiamo imboccando la strada della precarietà, col crollo della forza lavoro potenziale e il rischio, quindi, di far diventare insostenibile la spesa sociale (protezione sociale, sanità, assistenza, ammortizzatori sociali, spese per l’istruzione e politiche dell’abitazione, che ha una dimensione finanziaria di circa un terzo del prodotto interno lordo). Se poi, si guarda il dato occupazionale italiano al femminile, rispetto agli altri paesi europei, si scopre che da noi questa percentuale è del 53% contro un valore UE del 72% (Id.).

Cos’è successo? Non ci siamo accorti di quel che stava accadendo? In realtà, lo sapevamo benissimo. Chiunque di noi, anche senza studiare troppo, poteva accorgersi della diminuzione del numero delle classi scolastiche, dei pochissimi matrimoni, del minor numero di bambini nei parchi, ecc. Per non parlare degli studi demografici che avevano messo sull’avviso da tempo di questo pericolo. Ma non è servito a nulla. In altri paesi, come Francia e Germania, la tendenza alla decrescita è stata oggetto di una serie d’interventi che hanno favorito un certo riequilibrio. Noi su questo non abbiamo investito. Non c’è stata una politica pubblica. Abbiamo fatto poco e niente per mettere le nuove generazioni in condizione di costruirsi una famiglia, con la piena indipendenza economica e abitativa, “la promozione dell’intraprendenza nella società e nel mondo del lavoro, la realizzazione piena dei propri progetti di vita” (Id.).

Pare che col PNRR si vogliano costruire anche degli asili nido. Sarebbe ora. È un incentivo importante per provare a costruire le condizioni affinché i giovani possano pensare con più tranquillità ai figli. Ma non è sufficiente. Le ricerche ancora una volta ci dicono che nei giovani è aumentata notevolmente l’incertezza sul futuro. Continuano a restare accanto alla famiglia, ancora dipendenti economicamente, coi genitori che fanno da ammortizzatore sociale. Quindi, insieme alla creazione di infrastrutture sociali, è necessario restituire fiducia alle nuove generazioni. Bisogna concentrare l’attenzione su questo, sperando di essere ancora in tempo ad invertire questo trend. Per cui, meno spazio al “pistola”/pistola & C., anche perché francamente c’è poco da dire, se non allargare sconsolati le braccia. E più attenzione a figli e nipoti.

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