Ci sono conti nelle strutture pubbliche italiane che non tornano mai. Conti che ogni fine-inizio anno si ripresentano più o meno identici nella loro drammaticità. Come accade nelle patrie galere che continuano ad essere, sia pure con le dovute eccezioni, ai limiti della praticabilità. A fine dicembre scorso, quindici giorni fa per l’esattezza, i detenuti erano ben 60.166, vale a dire 10.000 in più dei posti effettivamente disponibili. A conti fatti danno un tasso di affollamento pari al 117,2 per cento, il che fa dell’Italia repubblicana uno dei paesi europei meno virtuosi sotto questo profilo. A dirlo nel consueto rapporto di fine anno è l’associazione Antigone – da decenni tiene sotto controllo le carceri nazionali – la quale evidenzia come nel terzo trimestre 2023 il trend sia cresciuto di ben 1688 unità e che se la tendenza fosse confermata nei mesi a venire “l’Italia raggiungerebbe di nuovo i livelli di sovraffollamento che costarono in passato una condanna da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Altra cifra inaccettabile è quella dei suicidi: ben 67 nell’anno appena archiviato, ancora come dodici anni fa quando sempre Antigone denunciava che in media ogni mese cinque persone si toglievano la vita. La drammatica stabilità di queste cifre dice che continuano a funzionare in Italia un numero molto elevato di prigioni troppo abitate dove le condizioni igienico – sanitarie fanno acqua da tutte le parti, dove le tensioni e lo stress sono all’ordine del giorno in assenza di adeguati spazi vitali. E questa è una grave carenza che colpisce innanzitutto i detenuti ma pure gli agenti di custodia tra l’altro stabilmente sotto organico. “Così – annota Antigone – ogni detenuto perde la sua identità ed è ridimensionato a numero di matricola…compiendo quel processo di istituzionalizzazione coatta che costituisce, malgrado la buona volontà di molti operatori, l’essenza della risposta carceraria”. Quella dell’edilizia carceraria resta infatti una delle grandi questione irrisolte dallo Stato italiano che ancora si avvale di molti istituti costruiti prima del ‘900 e di numerosi altri inaugurati prima del 1950. Non deve quindi stupire che manchino celle riscaldate, celle dotate di acqua calda solo a intermittenza, spazi per palestre e spazi per attività all’aperto.
Non sfugge certo a queste difficoltà strutturali il varesino carcere dei Miogni che ufficialmente risulta “dismesso”, ma che continua a funzionare in mancanza di alternative concrete. Senza le numerose iniziative di volontariato promosse all’interno dell’Istituto, con il decisivo supporto della direzione, la vivibilità dell’ottocentesco penitenziario risulterebbe ancor più problematica. Non si vedono peraltro soluzioni a breve termine dopo che negli anni ’80 la città nel suo complesso non riuscì, per una lunga serie di veti incrociati, a individuare un’area idonea per la costruzione del nuovo carcere, nonostante la disponibilità del Ministero a mettere in campo le necessarie risorse finanziarie. E infine che dire delle cosiddette “carceri fantasma” ovvero i penitenziari (circa una quarantina) costruiti – talvolta anche attrezzati – ma rimasti del tutto o parzialmente inutilizzati se non in alcuni casi addirittura abbandonati. Insomma anche il 2023 si chiude con molte ombre, poche luci e l’urgenza di riportare la questione carceraria al centro del dibattito politico, anche per limitare una certa frenesia punitiva che pare serpeggiare nel paese.
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