È morto nel pomeriggio del 26 dicembre, a 95 anni, Ettore Pagani. I funerali si terranno venerdì 29 alle 15 nella chiesa della Brunella. Era il decano dei giornalisti varesini. A lungo corrispondente della Gazzetta dello Sport, aveva lavorato a La Prealpina del Lunedì e fatto parte della famiglia di RMFonline sin dalla fondazione. Era per tutti noi l’Avvocato, professione che svolse meritoriamente e a lungo, affiancandovi la passione giornalistica e l’impegno civile. Ai familiari le condoglianze e un abbraccio.
Ecco il ricordo di Massimo Lodi, in un’intervista per il Calandari della Famiglia Bosina.
E’ un pomeriggio di fine estate. Caldo e luminoso. Siamo lì, nello studio legale di via Staurenghi a Varese. Seduti, per amicalità dell’ospite verso di me, nelle due comode sedie davanti alla scrivania con gli arredi disposti in disciplinato ordine. Tapparelle a metà, così da smorzare la luce. Io colpevolmente in pantaloncini e t-shirt, il dirimpettaio impeccabilmente in camicia e giacca. Ma in fondo è giusto così: uno acconciato da allievo e l’altro vestito da maestro.
Il maestro, di giornalismo, è Ettore Pagani. Lo conosco fin da quand’ero bambino e frequentavo la Casa dello Sport con mio papà Mario, suo collega, per vedere le partite della Ignis. Ettore, Mario, Bruno Minazzi, Giampiero Perucchetti: un poker di cronisti che avrebbero scritto la storia della pallacanestro varesina con altri venuti dopo, primo fra tutti Pier Fausto Vedani.
Per me, roba da mito. Un esempio: ci sono voluti decenni (decenni, non anni) perché cedessi alle insistenze di Ettore: dammi del tu, m’incalzava. Macché, non riuscivo a non dargli del lei e a non chiamarlo avvocato. Anche se poi divenni anch’io reporter di cose sportive, e spesso ci trovammo insieme su campi, piste, strade, tribune a seguire i nostri campioni di specialità diverse.
A Ettore ho carpito molti segreti, anche se non gliel’ho mai confessato. La puntigliosità nel documentarsi, il tempismo nel cogliere la notizia, l’astuzia nel far dire agl’intervistati quel che non avrebbero mai pensato di rivelare. In regalo prezioso ho ricevuto anche il suo gusto per l’ironia, la battuta dissacrante, la provocazione sorprendente. E basta così, per non indulgere all’apologia.
Dunque, tornando a noi due, qui di fronte nell’assolato incipit del settembre bosino. Domanda: perché ci vediamo in un giorno così insolito? Risposta: perché, dovendo scrivere il pezzo annuale per il Calandari, penso ch’egli meriti d’essere raccontato almeno un po’, dato il molto che ha offerto alla comunità locale. Con le attività professionali, la prodigalità civica, l’attenzione sociale. Restringeremo il campo della conversazione al giornalismo: una scelta imposta dalla mia pigrizia.
-Ettore, andiamo in premessa. Quand’è cominciata la tua passione per lo sport?
“Non è cominciata mai. E’ nata con me. L’ho avvertita dentro fin da quand’ero ragazzino. Mi piaceva tutto: calcio, pallacanestro, boxe, ciclismo, ippica. E pure il resto. Varese è stata la città ideale per dare sfogo a questa passione”.
-La tua città d’adozione, non nativa…
“Non nativa, ma è come se lo fosse. Sono venuto al mondo nel ’28 a San Maurizio, sopra Como, dove i miei avevano un albergo. Poi migrai con loro, prima a Induno Olona e infine a Varese, dove aprirono un esercizio in via Medaglie d’oro. Cominciai e finii le scuole qui. Al liceo classico mettemmo insieme una squadretta di basket, e ne feci parte con amici come Caresano, Marzoli, Lanata. Ci divertimmo un sacco”.
-A vent’anni o poco più eri già nei ranghi della Pallacanestro Varese…
“Davo una mano al settore giovanile. Ricordo una leva che allestimmo con Diego Roga e Mario Negri: un successo. Un altro successo fu convincere la società a prendere Giancarlo Gualco. Sarebbe stato un buon giocatore, e molti anni dopo il manager che costruì la Valanga Gialla. Straordinario, Gualco”.
-Accanto all’amore per lo sport, fioriva il desiderio per il giornalismo…
“Una cosa chiamava l’altra. Leggevo avidamente le cronache sportive, locali e nazionali, e mi veniva la voglia di scriverne. Ebbi l’occasione quando Ettore Maccapani, che succedette a Nuccio Ambrosetti nella corrispondenza da Varese per la Gazzetta dello Sport, mi chiese d’aiutarlo perché aveva molti impegni d’avvocato. Lo feci con tale dedizione che a un certo punto decise di lasciarmi il ruolo. Una staffetta su cui spesso scherzavamo, nelle pause dell’attività forense. Nel frattempo infatti ero diventato avvocato anch’io”.
-Sulla Gazzetta hai raccontato l’epopea biancorossa e gialloblù, calcio e basket stellari…
“Sono stato fortunato. Grazie a Giovanni Borghi, Varese fece un eccezionale salto di qualità. E anche noi giornalisti ci occupammo di vicende e di campioni che solo qualche anno prima mai avremmo immaginato di commentare”.
-Che tipo era Borghi?
“Intelligenza fuori del comune. Bonomia. Arguzia. Senso degli affari e dell’umorismo. Una volta andai a trovarlo a Comerio per averne un giudizio sulla vittoria mondiale d’un pugile della sua scuderia. Mi disse, fuori dall’intervista: non crederà mica che abbia vinto lui?”
-Sei stato amico di tanti atleti. Il più amico di tutti?
“Paolo Vittori. Quando venne dal Simmenthal all’Ignis lo aiutai a trovare casa. Nell’attesa, fu mio ospite fisso, pranzo e cena. Non ci fu volta in cui non cominciammo e finimmo tra le risate la sosta a tavola”.
-La maggior difficoltà della carriera?
“Il giorno in cui Anastasi arrivò al Varese, e lo dovetti intervistare. Capii poco o nulla di quel che diceva e fui costretto a denunziare questo fallimento alla redazione centrale della Gazzetta. Mi risposero: inventa. E inventai. Ne venne fuori un bellissimo articolo, che suppongo piacque anche ad Anastasi. Non ne ebbi alcuna rimostranza”.
-L’episodio più curioso?
“Fui incaricato d’intervistare Renato Guttuso, in vacanza a Velate. Aveva appena dipinto il francobollo celebrativo della vittoria dell’Italia al Mondiale ‘82 in Spagna. Ebbe un’espressione sofferente, che mi apparve misteriosa, durante tutta la chiacchierata. A un certo punto un lampo gli attraversò gli occhi. Si slacciò le scarpe, scambiandole di piede. ‘Avevo la sinistra sul destro e viceversa, ho capito finalmente perché doloravo’, sbottò”.
-Fra te e i colleghi c’è sempre stata armonia…
“Armonia e divertimento. Al punto che nel ’59 accolsi l’invito a far parte della redazione della Prealpina del lunedì, affiancando questo impegno della domenica sera a quello di corrispondente della Gazzetta. Faticosa incombenza, ma assolutamente gratificante. Mi spiacque molto quando smisi: la Prealpina fu una seconda famiglia, le scherzose risse calcistiche con i tipografi che irridevano la mia fede interista mi sono rimaste nel cuore”.
-Senza retorica: anche Varese ha te nel cuore…
“Ho cercato di fare il meglio per il bene della città. Mi ha dato molto, e io tutto. Gliene sono grato. Così come lo sono a mia moglie Annamaria, che mi è sempre stata vicina, ai miei figli Mauro, Roberta, Laura e ai quattro nipotini. Il loro affetto mi ha sempre motivato, sorretto, consolato. I vincitori della partita della mia vita sono loro.”
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