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Cultura

BRAVI INSEGNANTI, BUONA SCUOLA

ROMOLO VITELLI - 09/06/2012

Le macerie del terremoto, che  ha devastato l’Emilia-Romagna, sono la testimonianza plastica eloquente di ciò che è oggi  la condizione dell’Italia: un Paese in ginocchio, prostrato, allo sbando ed  attanagliato da una grave crisi sistemica che ha  sconvolto tutti i gangli vitali della società. La corruzione politica e morale non ha risparmiato nessun settore  persino il  Vaticano è stato travolto da questo ennesimo scandalo. Le difficoltà che stiamo vivendo sono di natura economica, ma coinvolgono il modo di vita, e quindi il livello culturale e morale di tutta la società e in particolare delle nuove generazioni. Si è in presenza di una crisi che, nei suoi aspetti più significativi è anche educativa, e che per  tanto per essere risolta richiede un’ adeguata attività educativa e di forma­zione, che prepari le nuove generazioni agli ardui compiti che le atten­dono. Che fare?

Nell’economia di questa mia riflessione mi limiterò a dire  che di fronte a problemi, per certi aspetti  analoghi, le altre nazioni hanno investito in riforme strutturali, finanziando la ricerca tecnologica e scientifica e la scuola.  Mentre l’ istruzione è diventata una voce importante della spesa pubblica nella maggioranza dei  paesi (si veda ad es. la Cina che ha attivato meccanismi di crescita investendo il 20% del PIL), in Italia siamo rimasti il fanalino di coda dei paesi OCSE con l’1,53% del nostro Pil.   E’ necessario comprendere che l’istruzione rappresenta un investimento non solo essenziale per sviluppare un potenziale di crescita duraturo, ma anche  per rispondere  ai cambiamenti fondamentali, in campo tecnologico e demografico e  nel rimodellare  i mercati del lavoro. Non meno importante – dice  Andreas Schleicher, capo della divisione Indicatori e analisti dell’OCSE,  nel saggio: “Uno sguardo sull’Istruzione in Italia” – è il fatto che una buona formazione scolastica favorisce l’accesso al lavoro; infatti se si osservano con attenzione le condizioni del mercato del lavoro nel 2009, i dati indicano che nei paesi colpiti per primi dalla recessione le persone con un’istruzione inferiore hanno incontrato più difficoltà a trovare o a conservare un impiego. Sorge a questo punto un quesito : il nostro sistema formativo è in grado di rispondere alle esigenze formative di una società in continua trasformazione, com’è l’attuale? Dice a tal proposito Andreas Schleicher: “Nonostante timidi segnali di miglioramento, nel complesso  la qualità  delle scuole italiane rimane al di sotto della media OCSE. Per colmare la distanza e garantire progresso e crescita nel lungo periodo l’Italia dovrà adottare misure volte a migliorare efficacia e rendimenti dei  propri sistemi formativi e ad adeguare l’insegnamento a standard che  non sono più nazionali ma globali”.

Occorreranno riforme strutturali nel settore formativo e scolastico e bisognerà  cominciare  una buona volta ad introdurre la cultura del merito in tutti i settori-chiave della società ed in particolare  a scuola, perché oggi – dice lo studioso esperto di Ict, Marc Prensky – in “I figli della Rete come deve cambiare la scuola ai tempi dei “nativi digitali” – “l’ambiente/ contesto in cui si sviluppano l’istruzione e l’educazione dei nostri giovani  è profondamente cambiato sia a livello personale, lavorativo, culturale, sociale, politico  che  tecnologico. E continuerà a cambiare sempre più velocemente”. Non c’è via di scampo: occorre che tutti vi si adattino e soprattutto gli insegnanti debbono fare uno sforzo per “rimettere in continua discussione il  proprio agire”. Essere insegnanti è sempre stato molto difficile in ogni epoca, ma oggi, forse, la mancanza di confronto con un tempo sicuro rende questa esperienza ancora più difficile anche perché  nell’arco di due generazioni ci sono stati nella nostra società  cambiamenti tali difficili da mettere a confronto. Quali sono questi cambiamenti?

Il nostro problema: continua M. Prensky –  “non riguarda il cambiamento dei “verbi” sottintesi – le abilità – dell’istruzione. Pensare criticamente, comunicare, comprendere, persuadere rimangono tra le abilità, insieme a tante altre, che vogliamo che i nostri studenti apprendano. Ma al giorno d’oggi, i migliori strumenti a disposizione che aiutano le persone nell’apprendimento – i “nomi” dell’istruzione – stanno cambiando in maniera estremamente rapida. I libri si stanno trasformando in ebooks. Le lavagne di ardesia in lavagne interattive multimediali (Lim). Lo scrivere sulla carta nello scrivere al computer per poi pubblicare nel ciberspazio. Le calcolatrici si stanno trasformando in computer, laptop, tablet e iPhone. Questi cambiamenti continueranno a susseguirsi nelle nostre vite e in quelle dei nostri bambini. Preparare i nostri studenti al futuro richiede un adattamento da parte di tutti – insegnanti, studenti, genitori e politici – anche se ciò è difficile, doloroso o lontano dalle nostre preferenze. E non è unicamente per il bene dei giovani, ma anche per il bene del Paese e, nel lungo periodo, della nostra civiltà”.

L’elaborazione di politiche educative è un processo fondamentale per garantire la formazione di individui sereni e capaci”.Dicono che la serenità e la capacità delle generazioni future” -scrive a tal proposito  la sociologa Marina D’Amato  dell’Università Roma tre, nel saggio: “Insegnare ad imparare”  – “dipende­ranno dai maestri che hanno avuto nella scuola primaria e nella scuola dell’infanzia  Si è sempre pensato che un bravo insegnante lascia il segno per tutta  la vita, ma ora lo si è provato scientificamente”.

Una recente ricerca – continua la sociologa – dimostra che gli individui che hanno  avuto buoni “maestri”  sono  più sereni, raggiungono il succes­so prima degli altri e guadagnano più della media. Non si tratta più di una diceria che  emerge dal senso comune ma del risultato di uno studio compiuto per vent’anni da due economisti dell’Università di Harvard, Raj Chetty e John Friedman, e da un loro collega della Colombia University, Jonah Rockoff, che, dopo aver sottoposto gli insegnanti della scuola elementare a test atti  a valutarne competenze e abilità, hanno individuato tre macro-aree: gli insegnami bravi, quelli medi e quelli scarsi. Sulla base di questo “scenario,” gli economisti hanno analizzato il percorso dei loro alunni nei vent’anni successivi, considerando i dati relativi all’iscrizione all’uni­versità, al reddito, al matrimonio, al luogo di residenza e al numero di figli, dimostrando che gli alunni che hanno avuto un insegnante molto bravo guadagnano di più di chi ha avuto un insegnante medio o medio-basso, hanno matrimoni più felici e attività professionali più gratificanti. A conti fatti, la ricerca dimostra che la sostituzione di un insegnante scadente con  uno più capace produrrebbe nel corso dell’intera vita un incremento economico di 266.000 dollari, e moltiplicando questa cifra per il numero di classi che un insegnante ha durante la sua carriera la cifra raggiunge una somma ragguardevole. Ma la condizione perché questa opportunità si realizzi esige la formazione  di base e la selezione di buoni insegnanti attraverso il merito. La questione  del merito a scuola è tornata d’attualità in questi giorni anche da noi perché il ministro Profumo ha annunciato di voler premiare gli studenti migliori. Ma questa iniziativa ha sollevato dubbi e perplessità tra gli addetti al lavoro, nei sindacati di categoria, negli studiosi di problematiche educative.  In un commento sul “Corriere della Sera” Andrea Ichino ha espresso una valutazione critica sull’intenzione di voler premiare gli studenti migliori. La vera urgenza, sostiene, è quella di premiare i migliori, sì, ma fra i docenti quegli insegnanti che tutti indistintamente apprezzano. Quelli di cui gli studenti si ricordano anche dopo 40 anni.

Da quattordici  anni i sindacati e le forze politiche hanno sbarrato la strada alla professionalità e al merito, facendo pagare costi altissimi anche in termini economico-sociali al nostro Paese. Infatti il terzo rapporto 2009 “Generare classe dirigente” realizzato dalla Luiss Guido Carli e da Fondirigenti (Fondazione per la cultura d’impresa promossa da Confindustria e Federmanager) quantifica i costi per l’Italia del non merito tra il 3,O % e il 7,5% del PiI. Ogni italiano paga tra i 1.080 e 2.671 euro l’insieme delle pratiche e delle politiche che non premiano il talento, la capacità, il valore delle persone. Un Paese in cui regna il non merito cresce di mezzo punto percentuale in meno rispetto agli altri. Affinché non si continuino ad accumulare decenni perduti, l’uscita dalla crisi per l’Italia non può che avvenire attraverso un cambiamento culturale forte che metta il merito al centro dello sviluppo.

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