Prima di ogni altra cosa il presepe è la riaffermazione dell’essenza della fede: ossia che il cristianesimo è il frutto non di una riflessione filosofica bensì di un fatto accaduto e di tutto ciò che ne è conseguito e ne consegue. E con il tipico anacronismo dei suoi personaggi sottolinea che nel tempo tale fatto perdura nella sua attualità fino a giungere a noi in quanto tale. Non è dunque per nulla un’ingenua tradizione popolare. È sì una tradizione popolare, ma nient’affatto ingenua, né tanto meno vagamente sentimentale. Ha anzi un solido impianto teologico. Come bene è stato detto il cammino verso il vero è un’esperienza: qualcosa che vive di fatti, non di emozioni.
Già Nietzsche aveva previsto che nel nostro tempo le opinioni avrebbero preso il posto dei fatti. Adesso però siamo andati anche oltre: il posto delle opinioni è stato preso dalle emozioni. Paradossalmente una cultura come quella oggi dominante, che orgogliosamente pretendeva di essere il culmine del realismo, non smette di allontanarsi dalla realtà. Almeno l’opinione, che è comunque un giudizio, tendeva ad avere un minimo di pretesa di validità per tutti. Presa a sé stante l’emozione è invece soggettivismo al massimo grado: qualcosa di inesprimibile e di incomunicabile, ma prima ancora che non interessa né esprimere né comunicare.
Nella sua semplicità il presepe è insomma in prima linea nell’impegno alla resistenza contro il catastrofico movimento franoso che caratterizza il pensiero di questa fase finale dell’età moderna.
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